Il raggiungimento e il mantenimento della pace e della sicurezza collettiva è il fine principale che, dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ha spinto un gruppo di idealisti, intellettuali e politici, all’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, baluardo della pace globale e simbolo del superamento delle rivalità dei popoli. Nei decenni immediatamente successivi alla sua istituzione, tuttavia, il frequente ricorso ai conflitti per la risoluzione delle controversie e le peculiari dinamiche geopolitiche, hanno paralizzato le attività del Consiglio di Sicurezza, limitando, se non azzerandola del tutto, l’efficacia potenziale degli interventi di mitigazione e gestione dei conflitti. I nuovi equilibri mondiali conseguenti alla fine della Guerra fredda, riflettendosi anche nella ridefinizione dei rapporti di forza in seno al Consiglio e in un crescente sentimento di fiducia dell’opinione pubblica, hanno dato l’avvio ad una nuova stagione imprimendo un cambiamento di passo nella strategia operativa. Il nuovo corso si è concretizzato in significativo incremento delle azioni sul campo attraverso le operazioni di peacekeeping realizzati in numerosi scenari di crisi (Cambogia, ex Jugoslavia, Somalia ed Haiti). L’intensificarsi di tali attività che, pur non essendo previste espressamente dallo Statuto sono tuttavia regolate da principi ben definiti (il consenso delle parti, l’imparzialità e il divieto dell’uso della forza), può essere pertanto ricondotta al nuovo assetto geopolitico internazionale che vede gli Stati Uniti, supportati dalle forti democrazie occidentali, approfittare della crisi della ex Unione Sovietica per assumere il ruolo di dominus mondiale. Attore significativo di questa nuova fase è stata la Cina che, pur avendo ottenuto grazie ad un intenso e lungo lavoro diplomatico con gli USA e gli Stati africani, uno scranno nel Consiglio di Sicurezza sin dal 1971, per lungo tempo non aveva preso parte alle operazioni di peacekeeping né aveva contribuito a sostenerne i costi. Questo mutato approccio è riconducibile ad una interpretazione meno intransigente della politica di non interferenza, pietra angolare dei rapporti internazionali di Pechino concepita all’indomani della seconda guerra mondiale dal Premier Zhou Enlai nell’intento di creare rapporti di buon vicinato con i paesi asiatici non comunisti e di manifestare solidarietà verso i paesi africani di nuova indipendenza per offrire un’alternativa culturale, ma non solo, all’ordine mondiale cui si ispiravano gli USA (Abutu et al., 2015). L’interpretazione che Pechino ha perseguito di questo concetto è stata ispirata dalla definizione offerta dal diritto internazionale post-bellico secondo cui si qualifica come atto d’interferenza ogni azione compiuta da un paese per destabilizzare sul piano politico e/o sociale un paese terzo (Ren, 2013), limitandone l’autonomia (Aidoo et al., 2015). Un approccio, questo, che pur considerando legittimo qualsiasi tipo di forma di governo di uno Stato e qualsiasi forma di interferenza negli affari interni di uno Stato terzo, non sembrerebbe proibire in assoluto e aprioristicamente suggerimenti, commenti o anche critiche negli affari interni di un paese (Chaziza, 2014). Accolto finanche nelle modifiche della Costituzione realizzate durante il Dodicesimo Congresso del Partito del 1982, tale principio disciplina ufficialmente la politica estera di Pechino pur essendo stato, nel corso dei decenni, più volte derogato o interpretato con maggiore flessibilità in relazione al cambiamento delle strategie geopolitiche impresso dai leader che si sono succeduti al potere. Nel periodo maoista, quando il turning point era lo scontro con Mosca e il posizionamento conseguente era nella zona intermedia fra URSS e USA, il paese ha optato per interventi “silenti”, realizzati attraverso iniziative riservate e comportamenti ambigui, ma mai apertamente ostili. È in questa fase, ad esempio, che vengono finanziati numerosi partiti comunisti in Asia ed Africa a sostegno della lotta rivoluzionaria secondo il modello maoista. Con l’avvento di Deng Xiaoping, quando accantonata la preminenza dell’ideologia dell’epoca maoista l’obiettivo principale divenne quello della crescita economica e dell’apertura all’economia di mercato, prevalse un approccio pragmatico alle questioni internazionali e una rifocalizzazione sul principio di non interferenza per il quale si pretendeva soprattutto l’osservanza sulle questioni interne. L’approccio pragmatico di Deng Xiaoping e il conseguente mutato atteggiamento nei confronti di un assetto internazionale più confacente alla realizzazione degli obiettivi economici, spingerà verso un’evoluzione significativa della posizione della Cina nei confronti delle operazioni di pace: dal 1981, quando si espresse positivamente a favore dell’intervento a Cipro, il paese ha sempre votato a favore di tutte le operazioni di peacekeeping iniziando a contribuire economicamente agli interventi sul campo, prendendo attivamente parte alle operazioni e condannando, parallelamente, ogni tipo di intervento non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza (Wu Miaofa, 2007). Pertanto, se già nel 1989 la Cina aveva inviato degli osservatori non militari in Namibia dove si trovava l’UN Namibia Transitional Period Aid Group per agevolare lo svolgimento delle elezioni, l’inizio della partecipazione attiva della Cina nelle operazioni di peacekeeping ONU può essere fatta risalire al 1990, quando furono inviati osservatori militari in Medioriente a supporto dell’UN Truce Supervision Organization (Tull Denis, 2006; Rogers P., 2007). Pur essendo uno dei maggiori attori nelle operazioni di peacekeeping, soprattutto in Africa, la Cina, non ha mai completamente risolto alcune riserve sullo strumento, subordinando il consenso e la partecipazione ad alcune precise condizioni, come il rispetto della sovranità, l’esplicita richiesta di intervento da parte dello Stato coinvolto e l’utilizzo della forza quale extrema ratio (Rem, 2013). In definitiva, pur se la non interferenza resta teoricamente al centro della politica estera cinese, l’affermarsi del ruolo di grande potenza globale ha comportato una maggiore adattabilità ai contesti ed un incremento della presenza attiva sullo scacchiere internazionale (Barton, 2018). La nuova visione del ruolo della Cina negli affari di sicurezza internazionale, affermatasi nell’era di XI e descritta nel White paper pubblicato nel 2015, prevede, infatti, una politica estera meno cauta e una maggiore propositività nella risoluzione delle controversie a garanzia della pace e della sicurezza globale. Se, tuttavia, il paese contribuisce in modo significativo per unità militari partecipanti alle operazioni (primo tra le potenze nucleari e dodicesimo nel mondo), non ha un peso altrettanto rilevante in termini di contributo economico alle operazioni. Da questo punto di vista gli Stati Uniti sono ancora largamente i maggiori contribuenti (28,4% del totale), anche se la Cina sta velocemente incrementando il proprio contributo pari, nel 2016, a circa il 10,2% del totale. Seguono Germania (6,3%), Francia (6,2%), Regno Unito (5,7%), Russia (3,9%) ed Italia (3,7%).

La presenza cinese negli scenari di crisi africani. Mitigazione dei conflitti e operazione di peacekeeping / LA FORESTA, Daniela. - (2020), pp. 239-258.

La presenza cinese negli scenari di crisi africani. Mitigazione dei conflitti e operazione di peacekeeping

La Foresta Daniela
2020

Abstract

Il raggiungimento e il mantenimento della pace e della sicurezza collettiva è il fine principale che, dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ha spinto un gruppo di idealisti, intellettuali e politici, all’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, baluardo della pace globale e simbolo del superamento delle rivalità dei popoli. Nei decenni immediatamente successivi alla sua istituzione, tuttavia, il frequente ricorso ai conflitti per la risoluzione delle controversie e le peculiari dinamiche geopolitiche, hanno paralizzato le attività del Consiglio di Sicurezza, limitando, se non azzerandola del tutto, l’efficacia potenziale degli interventi di mitigazione e gestione dei conflitti. I nuovi equilibri mondiali conseguenti alla fine della Guerra fredda, riflettendosi anche nella ridefinizione dei rapporti di forza in seno al Consiglio e in un crescente sentimento di fiducia dell’opinione pubblica, hanno dato l’avvio ad una nuova stagione imprimendo un cambiamento di passo nella strategia operativa. Il nuovo corso si è concretizzato in significativo incremento delle azioni sul campo attraverso le operazioni di peacekeeping realizzati in numerosi scenari di crisi (Cambogia, ex Jugoslavia, Somalia ed Haiti). L’intensificarsi di tali attività che, pur non essendo previste espressamente dallo Statuto sono tuttavia regolate da principi ben definiti (il consenso delle parti, l’imparzialità e il divieto dell’uso della forza), può essere pertanto ricondotta al nuovo assetto geopolitico internazionale che vede gli Stati Uniti, supportati dalle forti democrazie occidentali, approfittare della crisi della ex Unione Sovietica per assumere il ruolo di dominus mondiale. Attore significativo di questa nuova fase è stata la Cina che, pur avendo ottenuto grazie ad un intenso e lungo lavoro diplomatico con gli USA e gli Stati africani, uno scranno nel Consiglio di Sicurezza sin dal 1971, per lungo tempo non aveva preso parte alle operazioni di peacekeeping né aveva contribuito a sostenerne i costi. Questo mutato approccio è riconducibile ad una interpretazione meno intransigente della politica di non interferenza, pietra angolare dei rapporti internazionali di Pechino concepita all’indomani della seconda guerra mondiale dal Premier Zhou Enlai nell’intento di creare rapporti di buon vicinato con i paesi asiatici non comunisti e di manifestare solidarietà verso i paesi africani di nuova indipendenza per offrire un’alternativa culturale, ma non solo, all’ordine mondiale cui si ispiravano gli USA (Abutu et al., 2015). L’interpretazione che Pechino ha perseguito di questo concetto è stata ispirata dalla definizione offerta dal diritto internazionale post-bellico secondo cui si qualifica come atto d’interferenza ogni azione compiuta da un paese per destabilizzare sul piano politico e/o sociale un paese terzo (Ren, 2013), limitandone l’autonomia (Aidoo et al., 2015). Un approccio, questo, che pur considerando legittimo qualsiasi tipo di forma di governo di uno Stato e qualsiasi forma di interferenza negli affari interni di uno Stato terzo, non sembrerebbe proibire in assoluto e aprioristicamente suggerimenti, commenti o anche critiche negli affari interni di un paese (Chaziza, 2014). Accolto finanche nelle modifiche della Costituzione realizzate durante il Dodicesimo Congresso del Partito del 1982, tale principio disciplina ufficialmente la politica estera di Pechino pur essendo stato, nel corso dei decenni, più volte derogato o interpretato con maggiore flessibilità in relazione al cambiamento delle strategie geopolitiche impresso dai leader che si sono succeduti al potere. Nel periodo maoista, quando il turning point era lo scontro con Mosca e il posizionamento conseguente era nella zona intermedia fra URSS e USA, il paese ha optato per interventi “silenti”, realizzati attraverso iniziative riservate e comportamenti ambigui, ma mai apertamente ostili. È in questa fase, ad esempio, che vengono finanziati numerosi partiti comunisti in Asia ed Africa a sostegno della lotta rivoluzionaria secondo il modello maoista. Con l’avvento di Deng Xiaoping, quando accantonata la preminenza dell’ideologia dell’epoca maoista l’obiettivo principale divenne quello della crescita economica e dell’apertura all’economia di mercato, prevalse un approccio pragmatico alle questioni internazionali e una rifocalizzazione sul principio di non interferenza per il quale si pretendeva soprattutto l’osservanza sulle questioni interne. L’approccio pragmatico di Deng Xiaoping e il conseguente mutato atteggiamento nei confronti di un assetto internazionale più confacente alla realizzazione degli obiettivi economici, spingerà verso un’evoluzione significativa della posizione della Cina nei confronti delle operazioni di pace: dal 1981, quando si espresse positivamente a favore dell’intervento a Cipro, il paese ha sempre votato a favore di tutte le operazioni di peacekeeping iniziando a contribuire economicamente agli interventi sul campo, prendendo attivamente parte alle operazioni e condannando, parallelamente, ogni tipo di intervento non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza (Wu Miaofa, 2007). Pertanto, se già nel 1989 la Cina aveva inviato degli osservatori non militari in Namibia dove si trovava l’UN Namibia Transitional Period Aid Group per agevolare lo svolgimento delle elezioni, l’inizio della partecipazione attiva della Cina nelle operazioni di peacekeeping ONU può essere fatta risalire al 1990, quando furono inviati osservatori militari in Medioriente a supporto dell’UN Truce Supervision Organization (Tull Denis, 2006; Rogers P., 2007). Pur essendo uno dei maggiori attori nelle operazioni di peacekeeping, soprattutto in Africa, la Cina, non ha mai completamente risolto alcune riserve sullo strumento, subordinando il consenso e la partecipazione ad alcune precise condizioni, come il rispetto della sovranità, l’esplicita richiesta di intervento da parte dello Stato coinvolto e l’utilizzo della forza quale extrema ratio (Rem, 2013). In definitiva, pur se la non interferenza resta teoricamente al centro della politica estera cinese, l’affermarsi del ruolo di grande potenza globale ha comportato una maggiore adattabilità ai contesti ed un incremento della presenza attiva sullo scacchiere internazionale (Barton, 2018). La nuova visione del ruolo della Cina negli affari di sicurezza internazionale, affermatasi nell’era di XI e descritta nel White paper pubblicato nel 2015, prevede, infatti, una politica estera meno cauta e una maggiore propositività nella risoluzione delle controversie a garanzia della pace e della sicurezza globale. Se, tuttavia, il paese contribuisce in modo significativo per unità militari partecipanti alle operazioni (primo tra le potenze nucleari e dodicesimo nel mondo), non ha un peso altrettanto rilevante in termini di contributo economico alle operazioni. Da questo punto di vista gli Stati Uniti sono ancora largamente i maggiori contribuenti (28,4% del totale), anche se la Cina sta velocemente incrementando il proprio contributo pari, nel 2016, a circa il 10,2% del totale. Seguono Germania (6,3%), Francia (6,2%), Regno Unito (5,7%), Russia (3,9%) ed Italia (3,7%).
2020
978-88-3611-006-3
La presenza cinese negli scenari di crisi africani. Mitigazione dei conflitti e operazione di peacekeeping / LA FORESTA, Daniela. - (2020), pp. 239-258.
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