Prendendo spunto da studi recenti sulla trasformazione dello spazio sacro fra tardo Medioevo e prima Età Moderna, questo articolo esamina alcuni casi di rimozione del coro dalla navata delle principali chiese medievali di Napoli. Un esempio precoce è offerto dalla chiesa del Carmine, in cui il coro fu trasferito in uno spazio sopraelevato all’ingresso nel 1480. L’iniziativa è riconducibile alla necessità di disporre di uno spazio sufficientemente ampio, adeguato al rango acquisito dalla chiesa nella seconda metà del secolo, quando l’edificio, ubicato nei pressi della grande piazza del Mercato, fu definitivamente inserito nel circuito murario e divenne meta di processioni e rituali pubblici, nonché sede di numerose corporazioni artigianali. La liberazione della navata favorì inoltre la massima visibilità di due immagini medievali di culto, l’icona della Madonna Bruna e il Crocifisso miracoloso, tuttora oggetto di devozione e fulcro visivo dell’intero edificio. Partendo da una testimonianza dello storico napoletano Giovanni Antonio Summonte, che attribuiva al frate domenicano Ambrogio Salvi il merito di aver introdotto per primo a Napoli questo nuovo tipo di allestimento, si esaminano quindi altri casi di riconfigurazione del coro e del santuario nelle chiese degli ordini mendicanti, in particolare a San Pietro Martire, a San Lorenzo Maggiore e a Santa Chiara, oltre che nella cattedrale di Napoli e nelle principali basiliche urbane. L’iniziativa di Salvi in San Pietro Martire, di cui fu priore nel 1551, è ricondotta da Summonte alla maggiore comodità dei frati e dei laici, ma sulla base di altre fonti è possibile stabilire che, come in altri casi analoghi in Italia, l’operazione s’inquadrava nella più generale necessità di conferire massimo risalto all’altare maggiore, su cui Salvi fece collocare un tabernacolo eucaristico, presumibilmente riconducibile alla tipologia a tempietto adottata con sempre maggiore frequenza in età controriformistica. In San Lorenzo Maggiore, il coro fu invece rimosso in seguito a una delibera dei frati del 1563, mentre era priore Ottaviano Caro, che aveva partecipato alla fase conclusiva del Concilio di Trento. L’iniziativa fu motivata, come in san Pietro Martire e al Carmine, dalla necessità di “magnificare e adornare la chiesa” a vantaggio dei laici e dei frati, e aumentò la visibilità del grande altare marmoreo di Giovanni da Nola, celebrato nelle guide napoletane di età successiva per i suoi raffinati rilievi. Summonte scrive inoltre che la nuova soluzione non fu adottata né in Santa Chiara, né in Cattedrale. Nella prima, il coro fu mantenuto nella navata, sia perché l’edificio era già sufficientemente ampio, sia perché dietro l’altare si trovava la tomba di Roberto d’Angiò, fondatore della chiesa. L’importanza di questo monumento per la storia dell’edificio e della città intera è senza dubbio il motivo per cui si mantenne l’antico allestimento medievale, sebbene importanti novità si registrino a fine Cinquecento nella riconfigurazione dell’altare con la creazione di un ciborio sul modello delle basiliche romane e con l’istallazione di un tabernacolo eucaristico a tempietto, ritratto in una medaglia commemorativa della vittoria nella battaglia di Lepanto. In cattedrale invece, secondo Summonte, non si volle alterare l’allestimento del santuario concepito a inizio Cinquecento dal cardinale Oliviero Carafa. Anche in questo caso però sono documentate modifiche all’area presbiteriale per opera dell’arcivescovo Alfonso Gesualdo, che fece rimuovere le tombe dei sovrani angioini favorendo la creazione di un vero e proprio pantheon arcivescovile, che enfatizzava il legame dell’episcopato cittadino con la tradizione cristiana delle origini anche attraverso un nuovo ciclo pittorico realizzato dal pittore Giovanni di Balducci. Gesualdo fece anche rimuovere il coro dalla navata, ma il suo successore Decio Carafa, discendente di Oliviero e appartenente a un casato che aveva occupato quasi ininterrottamente la carica arcivescovile, lo fece ripristinare nella navata, ristabilendo così la tradizione antica e il prestigio familiare. Nel frattempo però il nuovo allestimento col coro posto dietro l’altare maggiore era stato adottato nelle principali basiliche urbane, San Giorgio Maggiore, Santa Maria Maggiore e San Giovanni Maggiore. In tutti questi edifici, successivamente ricostruiti o profondamente alterati, la rimozione del coro servì innanzitutto a favorire la visibilità del santuario, enfatizzando le antiche memorie visive della chiesa locale. Tutti questi casi dimostrano che la liberazione della navata e la maggiore enfasi sull’altare maggiore dipesero da fattori non sempre riconducibili alle norme post-conciliari, ed esprimevano un legame consapevole con la tradizione locale, aspetto fondante dell’identità cittadina.

La trasformazione dello spazio liturgico nelle chiese medievali di Napoli durante il XVI secolo: alcuni casi di studio / D'Ovidio, Stefano. - (2018), pp. 93-119.

La trasformazione dello spazio liturgico nelle chiese medievali di Napoli durante il XVI secolo: alcuni casi di studio

Stefano D'Ovidio
2018

Abstract

Prendendo spunto da studi recenti sulla trasformazione dello spazio sacro fra tardo Medioevo e prima Età Moderna, questo articolo esamina alcuni casi di rimozione del coro dalla navata delle principali chiese medievali di Napoli. Un esempio precoce è offerto dalla chiesa del Carmine, in cui il coro fu trasferito in uno spazio sopraelevato all’ingresso nel 1480. L’iniziativa è riconducibile alla necessità di disporre di uno spazio sufficientemente ampio, adeguato al rango acquisito dalla chiesa nella seconda metà del secolo, quando l’edificio, ubicato nei pressi della grande piazza del Mercato, fu definitivamente inserito nel circuito murario e divenne meta di processioni e rituali pubblici, nonché sede di numerose corporazioni artigianali. La liberazione della navata favorì inoltre la massima visibilità di due immagini medievali di culto, l’icona della Madonna Bruna e il Crocifisso miracoloso, tuttora oggetto di devozione e fulcro visivo dell’intero edificio. Partendo da una testimonianza dello storico napoletano Giovanni Antonio Summonte, che attribuiva al frate domenicano Ambrogio Salvi il merito di aver introdotto per primo a Napoli questo nuovo tipo di allestimento, si esaminano quindi altri casi di riconfigurazione del coro e del santuario nelle chiese degli ordini mendicanti, in particolare a San Pietro Martire, a San Lorenzo Maggiore e a Santa Chiara, oltre che nella cattedrale di Napoli e nelle principali basiliche urbane. L’iniziativa di Salvi in San Pietro Martire, di cui fu priore nel 1551, è ricondotta da Summonte alla maggiore comodità dei frati e dei laici, ma sulla base di altre fonti è possibile stabilire che, come in altri casi analoghi in Italia, l’operazione s’inquadrava nella più generale necessità di conferire massimo risalto all’altare maggiore, su cui Salvi fece collocare un tabernacolo eucaristico, presumibilmente riconducibile alla tipologia a tempietto adottata con sempre maggiore frequenza in età controriformistica. In San Lorenzo Maggiore, il coro fu invece rimosso in seguito a una delibera dei frati del 1563, mentre era priore Ottaviano Caro, che aveva partecipato alla fase conclusiva del Concilio di Trento. L’iniziativa fu motivata, come in san Pietro Martire e al Carmine, dalla necessità di “magnificare e adornare la chiesa” a vantaggio dei laici e dei frati, e aumentò la visibilità del grande altare marmoreo di Giovanni da Nola, celebrato nelle guide napoletane di età successiva per i suoi raffinati rilievi. Summonte scrive inoltre che la nuova soluzione non fu adottata né in Santa Chiara, né in Cattedrale. Nella prima, il coro fu mantenuto nella navata, sia perché l’edificio era già sufficientemente ampio, sia perché dietro l’altare si trovava la tomba di Roberto d’Angiò, fondatore della chiesa. L’importanza di questo monumento per la storia dell’edificio e della città intera è senza dubbio il motivo per cui si mantenne l’antico allestimento medievale, sebbene importanti novità si registrino a fine Cinquecento nella riconfigurazione dell’altare con la creazione di un ciborio sul modello delle basiliche romane e con l’istallazione di un tabernacolo eucaristico a tempietto, ritratto in una medaglia commemorativa della vittoria nella battaglia di Lepanto. In cattedrale invece, secondo Summonte, non si volle alterare l’allestimento del santuario concepito a inizio Cinquecento dal cardinale Oliviero Carafa. Anche in questo caso però sono documentate modifiche all’area presbiteriale per opera dell’arcivescovo Alfonso Gesualdo, che fece rimuovere le tombe dei sovrani angioini favorendo la creazione di un vero e proprio pantheon arcivescovile, che enfatizzava il legame dell’episcopato cittadino con la tradizione cristiana delle origini anche attraverso un nuovo ciclo pittorico realizzato dal pittore Giovanni di Balducci. Gesualdo fece anche rimuovere il coro dalla navata, ma il suo successore Decio Carafa, discendente di Oliviero e appartenente a un casato che aveva occupato quasi ininterrottamente la carica arcivescovile, lo fece ripristinare nella navata, ristabilendo così la tradizione antica e il prestigio familiare. Nel frattempo però il nuovo allestimento col coro posto dietro l’altare maggiore era stato adottato nelle principali basiliche urbane, San Giorgio Maggiore, Santa Maria Maggiore e San Giovanni Maggiore. In tutti questi edifici, successivamente ricostruiti o profondamente alterati, la rimozione del coro servì innanzitutto a favorire la visibilità del santuario, enfatizzando le antiche memorie visive della chiesa locale. Tutti questi casi dimostrano che la liberazione della navata e la maggiore enfasi sull’altare maggiore dipesero da fattori non sempre riconducibili alle norme post-conciliari, ed esprimevano un legame consapevole con la tradizione locale, aspetto fondante dell’identità cittadina.
2018
978-88-6728-913-4
La trasformazione dello spazio liturgico nelle chiese medievali di Napoli durante il XVI secolo: alcuni casi di studio / D'Ovidio, Stefano. - (2018), pp. 93-119.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11588/716299
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