Il saggio problematizza l’apparente paradosso della “distruzione della conoscenza” ad opera della “società della conoscenza”: la dissoluzione, cioè, ad opera di quest’ultima, dell'ecosistema che ha assicurato per secoli “le condizioni per l'esistenza di un mondo dedicato alle cose della conoscenza” (Granger). La fine dell’università e l’ingresso nella “post-historical university” coincide con la perdita di autonomia dell’università (garantita dal “concordato huboldtiano” all’insegna del binomio “Freiheit und Einsamkeit”): una perdita attuata – di nuovo paradossalmente – attraverso il diktat dell’autonomia, divenuta insieme alla valutazione la parola d’ordine delle trasformazioni progettate a livello europeo all’indomani della caduta del muro. La caduta, insieme, della torre d’avorio della vecchia accademia e la sua apertura alla società civile non hanno significato affatto, come demagogicamente si voluto sostenere, una rottura con la vecchia università dei privilegi baronali, una democratizzazione dell’università; ma unicamente, come si argomenta, la sua sottomissione al principio formale della concorrenza: l’apertura alla “società civile” (marxianamente la buergerliche Gesellschaft, lo spazio pubblico degli interessi privati, luogo di azione reciproca e gestione degli homines aeconomici - nel lessico manageriale, “stakeholders”) ha programmaticamente comportato nient’altro che questo. La sedicente cultura della valutazione viene così messa allo scoperto come veste ideologica di giustificazione di uno stabile tuning con le richieste avanzate dal mercato del lavoro e dai portatori di interesse: una sintonia forzata, incompatibile con la destabilizzazione sempre prodotta dal sapere e dalla scienza, che rappresenta invero "l'antimodello di un sistema stabile" (Lyotard).
Cultura della valutazione e governamentalizzazione della conoscenza / Pinto, Valeria. - (2018), pp. 91-107.
Cultura della valutazione e governamentalizzazione della conoscenza
Valeria Pinto
2018
Abstract
Il saggio problematizza l’apparente paradosso della “distruzione della conoscenza” ad opera della “società della conoscenza”: la dissoluzione, cioè, ad opera di quest’ultima, dell'ecosistema che ha assicurato per secoli “le condizioni per l'esistenza di un mondo dedicato alle cose della conoscenza” (Granger). La fine dell’università e l’ingresso nella “post-historical university” coincide con la perdita di autonomia dell’università (garantita dal “concordato huboldtiano” all’insegna del binomio “Freiheit und Einsamkeit”): una perdita attuata – di nuovo paradossalmente – attraverso il diktat dell’autonomia, divenuta insieme alla valutazione la parola d’ordine delle trasformazioni progettate a livello europeo all’indomani della caduta del muro. La caduta, insieme, della torre d’avorio della vecchia accademia e la sua apertura alla società civile non hanno significato affatto, come demagogicamente si voluto sostenere, una rottura con la vecchia università dei privilegi baronali, una democratizzazione dell’università; ma unicamente, come si argomenta, la sua sottomissione al principio formale della concorrenza: l’apertura alla “società civile” (marxianamente la buergerliche Gesellschaft, lo spazio pubblico degli interessi privati, luogo di azione reciproca e gestione degli homines aeconomici - nel lessico manageriale, “stakeholders”) ha programmaticamente comportato nient’altro che questo. La sedicente cultura della valutazione viene così messa allo scoperto come veste ideologica di giustificazione di uno stabile tuning con le richieste avanzate dal mercato del lavoro e dai portatori di interesse: una sintonia forzata, incompatibile con la destabilizzazione sempre prodotta dal sapere e dalla scienza, che rappresenta invero "l'antimodello di un sistema stabile" (Lyotard).File | Dimensione | Formato | |
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