Questa storia comincia nel 1932, quando Eduardo, pur trovandosi ancora nella ‘riserva protetta’ del «Teatro Umoristico ‘I De Filippo’» (quindi alle prese con una pratica teatrale per lo più farsesca, legata comunque alla tradizione napoletana), sente il bisogno di coltivare un originale e impegnato filone di ricerca. Lo fa attraverso la riscoperta e la riscrittura di tre opere molto diverse, eppure accomunate sia dall’appartenenza ad altri ambiti storico-culturali e linguistici che da una fondamentale convergenza tematica. Dapprima, nel 1932, mette in scena ’O padron songh’io, palinsesto di quel Sior Tita paron (1928) che costituisce uno dei più coerenti esiti della drammaturgia in dialetto veneto di Gino Rocca; è la volta poi, un lustro dopo, de L’abito nuovo, ispirato all’omonima novella pirandelliana del 1913, e di Una creatura senza difesa (prova di bravura di Titina, nella duplice veste di autrice e attrice), molto liberamente ispirato a L’anniversario (1891) di Cechov. Questi tre spettacoli ci parlano di un’inquietudine che va oltre il piano culturale e morfologico, cioè non riguarda i soli nodi teorici, e di specifico dominio comparatistico, dell’intertestualità e della riscrittura (con la complicazione, per gli ultimi due casi, della migrazione dal codice narrativo al linguaggio altro della scena). Essa è anche ideologica: perché quei tre testi affrontano la difficile relazione tra servitù e dominio, tra ricchezza materiale e purezza spirituale, tra bontà di cuore e carità pelosa, disegnando per il drammaturgo una dec siva costellazione concettuale. Probabilmente, attraverso tali esperienze (in sé non particolarmente pregnanti) Eduardo mette a fuoco quello che diverrà, già pochi anni dopo, un pungolo della sua spesso misconosciuta riflessione politica; e che giungerà a compiuta maturità espressiva nel 1942, con la stesura e la rappresentazione di Io, l’erede (non a caso canto del cigno della prima fase della sua drammaturgia, e ponte verso la fondazione del «Teatro di Eduardo»). Tragicommedia filosofica sulla beneficenza interessata, sulla trasformazione dell’individuo in «capitale umano», sulla perversione del dono, Io, l’erede, pur imperniato sulla «cellula» familiare, in fondo si occupa, per via allegorica, di uno Stato assistenziale e paternalista, profondamente incapace di progettare e di indurre uno sviluppo e un’autodeterminazione dei singoli soggetti. Così, trattandosi anche di una riflessione acuminata sugli idola e sulla falsa coscienza del ceto borghese, l’opera costringe a un radicale ripensamento del «populismo» eduardiano a suo tempo diagnosticato da Asor Rosa (categoria già sottoposta al vaglio di studiosi come Anna Barsotti, Franca Angelini, Angelo Puglisi). Inoltre, la tematizzazione nell’opera della largesse come «dono fastoso» e «dono perverso» non può che richiamare quelle scritture e quelle teorie – anche coeve – che sono state attraversate da Jean Starobinski nel racconto critico di A piene mani: che Eduardo ne avesse o meno coscienza, si tratta di una coincidenza cruciale, che ci restituisce una immagine di modernità e di engagement spesso negata al drammaturgo napoletano. Sarà più avanti, in particolare in due apologhi terribili come Il sindaco del rione Sanità (1960) e Il contratto (1967), che l’analisi eduardiana dei meccanismi di copertura e di mistificazione, posti in essere da un soggetto che si sostituisce all’autorità statale e si impossessa perfino della sfera del sacro, parrà sfondare il piano sociologico e configurare un’antropologia senza tempo, fatta di gente umile e di genii locorum, di miracoli falsi e di protezioni al di qua della porta della legge, di viziosi circuiti del dono e di miserabili contratti sociali. Proprio in quanto abitano «stati di eccezione», le comunità rappresentate in quelle estreme commedie sembrano rendere ancora più aspra la critica del presente e dei suoi fantasmi ideologici, mentre il dialogo intertestuale di de Filippo con la più coraggiosa ricerca drammaturgica di ambito sovranazionale pare infittirsi.

Venere degli stracci. Immagini del dono e critica della borghesia nel teatro eduardiano / DE CRISTOFARO, Francesco Paolo. - (2015), pp. 244-251.

Venere degli stracci. Immagini del dono e critica della borghesia nel teatro eduardiano

DE CRISTOFARO, Francesco Paolo
2015

Abstract

Questa storia comincia nel 1932, quando Eduardo, pur trovandosi ancora nella ‘riserva protetta’ del «Teatro Umoristico ‘I De Filippo’» (quindi alle prese con una pratica teatrale per lo più farsesca, legata comunque alla tradizione napoletana), sente il bisogno di coltivare un originale e impegnato filone di ricerca. Lo fa attraverso la riscoperta e la riscrittura di tre opere molto diverse, eppure accomunate sia dall’appartenenza ad altri ambiti storico-culturali e linguistici che da una fondamentale convergenza tematica. Dapprima, nel 1932, mette in scena ’O padron songh’io, palinsesto di quel Sior Tita paron (1928) che costituisce uno dei più coerenti esiti della drammaturgia in dialetto veneto di Gino Rocca; è la volta poi, un lustro dopo, de L’abito nuovo, ispirato all’omonima novella pirandelliana del 1913, e di Una creatura senza difesa (prova di bravura di Titina, nella duplice veste di autrice e attrice), molto liberamente ispirato a L’anniversario (1891) di Cechov. Questi tre spettacoli ci parlano di un’inquietudine che va oltre il piano culturale e morfologico, cioè non riguarda i soli nodi teorici, e di specifico dominio comparatistico, dell’intertestualità e della riscrittura (con la complicazione, per gli ultimi due casi, della migrazione dal codice narrativo al linguaggio altro della scena). Essa è anche ideologica: perché quei tre testi affrontano la difficile relazione tra servitù e dominio, tra ricchezza materiale e purezza spirituale, tra bontà di cuore e carità pelosa, disegnando per il drammaturgo una dec siva costellazione concettuale. Probabilmente, attraverso tali esperienze (in sé non particolarmente pregnanti) Eduardo mette a fuoco quello che diverrà, già pochi anni dopo, un pungolo della sua spesso misconosciuta riflessione politica; e che giungerà a compiuta maturità espressiva nel 1942, con la stesura e la rappresentazione di Io, l’erede (non a caso canto del cigno della prima fase della sua drammaturgia, e ponte verso la fondazione del «Teatro di Eduardo»). Tragicommedia filosofica sulla beneficenza interessata, sulla trasformazione dell’individuo in «capitale umano», sulla perversione del dono, Io, l’erede, pur imperniato sulla «cellula» familiare, in fondo si occupa, per via allegorica, di uno Stato assistenziale e paternalista, profondamente incapace di progettare e di indurre uno sviluppo e un’autodeterminazione dei singoli soggetti. Così, trattandosi anche di una riflessione acuminata sugli idola e sulla falsa coscienza del ceto borghese, l’opera costringe a un radicale ripensamento del «populismo» eduardiano a suo tempo diagnosticato da Asor Rosa (categoria già sottoposta al vaglio di studiosi come Anna Barsotti, Franca Angelini, Angelo Puglisi). Inoltre, la tematizzazione nell’opera della largesse come «dono fastoso» e «dono perverso» non può che richiamare quelle scritture e quelle teorie – anche coeve – che sono state attraversate da Jean Starobinski nel racconto critico di A piene mani: che Eduardo ne avesse o meno coscienza, si tratta di una coincidenza cruciale, che ci restituisce una immagine di modernità e di engagement spesso negata al drammaturgo napoletano. Sarà più avanti, in particolare in due apologhi terribili come Il sindaco del rione Sanità (1960) e Il contratto (1967), che l’analisi eduardiana dei meccanismi di copertura e di mistificazione, posti in essere da un soggetto che si sostituisce all’autorità statale e si impossessa perfino della sfera del sacro, parrà sfondare il piano sociologico e configurare un’antropologia senza tempo, fatta di gente umile e di genii locorum, di miracoli falsi e di protezioni al di qua della porta della legge, di viziosi circuiti del dono e di miserabili contratti sociali. Proprio in quanto abitano «stati di eccezione», le comunità rappresentate in quelle estreme commedie sembrano rendere ancora più aspra la critica del presente e dei suoi fantasmi ideologici, mentre il dialogo intertestuale di de Filippo con la più coraggiosa ricerca drammaturgica di ambito sovranazionale pare infittirsi.
2015
9788891727763
Venere degli stracci. Immagini del dono e critica della borghesia nel teatro eduardiano / DE CRISTOFARO, Francesco Paolo. - (2015), pp. 244-251.
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