Il contributo è teso a dimostrare come, nell’analisi dei processi di integrazione, sia necessario prendere in considerazione non soltanto gli indicatori oggettivi (occupazione, condizioni di vita, status legale, competenza linguistica, ecc.), ma anche le esperienze biografiche dei migranti ed il significato che essi attribuiscono all’essere integrati. L’assunto di partenza è che definizione oggettiva e soggettiva dell’integrazione non necessariamente coincidono, e che il confronto tra le due prospettive – quella istituzionale e quella dei protagonisti – sia un tema meritevole di attenzione. L’inclusione della prospettiva soggettiva è stata realizzata attraverso la raccolta di 16 interviste narrative. In particolare, sono stati intervistati uomini e donne provenienti dall’Ucraina, dallo Sri Lanka e dal Senegal, che hanno vissuto a Napoli per un periodo di tempo significativo. La scelta dell’approccio biografico è stata determinata non solo dalla necessità di “dare voce” a coloro che vivono l’esperienza migratoria in prima persona, ma anche dall’intenzione di facilitare l’espressione della loro agency. Nelle narrative autobiografiche, infatti, il livello dell’agency e quello della struttura sono intimamente legati, dal momento che i progetti individuali vengono sempre inquadrati nel più vasto contesto sociale ed istituzionale, contesto nel quale tali progetti possono risultare realizzati o bloccati. L’analisi delle interviste biografiche ha evidenziato un approccio pragmatico all’integrazione, profondamente radicato nei progetti di vita degli immigrati. Diversamente dalle attese, il tema dell’integrazione non è stato sollevato dagli intervistati; la parola stessa – integrazione – non è parte del loro vocabolario, ed il tema dei diritti non risulta essere un loro tema di riflessione. Più che la nozione di integrazione così come viene concettualizzata nel discorso politico e negli studi sul tema, gli intervistati hanno evidenziato un’idea di integrazione come “vita buona”. Essere integrati, per i nostri intervistati, significa avere un lavoro e un luogo decente in cui vivere, essere supportati dagli affetti familiari e dagli amici, sentirsi accettati e sentirsi liberi, mentre la questione della cittadinanza e dei diritti rivestono minore importanza. Questo dato sembra essere legato al fatto che molti degli immigrati che abbiamo incontrato vedono la loro esperienza come un’esperienza transitoria, il che li rende molto più propensi ad accettare i limiti e le difficoltà che essi incontrano nel paese di destinazione. I punti di riferimento temporali non sono dati dal presente, il qui ed ora, ma piuttosto dal passato, spesso segnato dalla povertà e dalla sofferenza (ciò spiega perché la situazione attuale appaia ai loro occhi accettabile se non pienamente soddisfacente), e dal futuro, collocato in un luogo incerto qui, nel paese d’origine, o altrove (da qui lo scarso interesse per l’acquisizione della cittadinanza). Emerge dunque una profonda distanza tra l’integrazione intesa come costrutto teorico e come obiettivo di politica sociale da un lato, e come esperienza biografica degli immigrati dall’altro. Da una prospettiva bottom-up, infatti, l’integrazione ha un carattere essenzialmente pragmatico, che non ha a che vedere col “diventare uno di noi”, ma piuttosto con la possibilità di realizzare una “buona vita”.

Cosa significa l'integrazione? Quando a rispondere sono gli immigrati / Spano', Antonella; Domecka, Markieta. - (2014), pp. 215-236.

Cosa significa l'integrazione? Quando a rispondere sono gli immigrati

SPANO', ANTONELLA;
2014

Abstract

Il contributo è teso a dimostrare come, nell’analisi dei processi di integrazione, sia necessario prendere in considerazione non soltanto gli indicatori oggettivi (occupazione, condizioni di vita, status legale, competenza linguistica, ecc.), ma anche le esperienze biografiche dei migranti ed il significato che essi attribuiscono all’essere integrati. L’assunto di partenza è che definizione oggettiva e soggettiva dell’integrazione non necessariamente coincidono, e che il confronto tra le due prospettive – quella istituzionale e quella dei protagonisti – sia un tema meritevole di attenzione. L’inclusione della prospettiva soggettiva è stata realizzata attraverso la raccolta di 16 interviste narrative. In particolare, sono stati intervistati uomini e donne provenienti dall’Ucraina, dallo Sri Lanka e dal Senegal, che hanno vissuto a Napoli per un periodo di tempo significativo. La scelta dell’approccio biografico è stata determinata non solo dalla necessità di “dare voce” a coloro che vivono l’esperienza migratoria in prima persona, ma anche dall’intenzione di facilitare l’espressione della loro agency. Nelle narrative autobiografiche, infatti, il livello dell’agency e quello della struttura sono intimamente legati, dal momento che i progetti individuali vengono sempre inquadrati nel più vasto contesto sociale ed istituzionale, contesto nel quale tali progetti possono risultare realizzati o bloccati. L’analisi delle interviste biografiche ha evidenziato un approccio pragmatico all’integrazione, profondamente radicato nei progetti di vita degli immigrati. Diversamente dalle attese, il tema dell’integrazione non è stato sollevato dagli intervistati; la parola stessa – integrazione – non è parte del loro vocabolario, ed il tema dei diritti non risulta essere un loro tema di riflessione. Più che la nozione di integrazione così come viene concettualizzata nel discorso politico e negli studi sul tema, gli intervistati hanno evidenziato un’idea di integrazione come “vita buona”. Essere integrati, per i nostri intervistati, significa avere un lavoro e un luogo decente in cui vivere, essere supportati dagli affetti familiari e dagli amici, sentirsi accettati e sentirsi liberi, mentre la questione della cittadinanza e dei diritti rivestono minore importanza. Questo dato sembra essere legato al fatto che molti degli immigrati che abbiamo incontrato vedono la loro esperienza come un’esperienza transitoria, il che li rende molto più propensi ad accettare i limiti e le difficoltà che essi incontrano nel paese di destinazione. I punti di riferimento temporali non sono dati dal presente, il qui ed ora, ma piuttosto dal passato, spesso segnato dalla povertà e dalla sofferenza (ciò spiega perché la situazione attuale appaia ai loro occhi accettabile se non pienamente soddisfacente), e dal futuro, collocato in un luogo incerto qui, nel paese d’origine, o altrove (da qui lo scarso interesse per l’acquisizione della cittadinanza). Emerge dunque una profonda distanza tra l’integrazione intesa come costrutto teorico e come obiettivo di politica sociale da un lato, e come esperienza biografica degli immigrati dall’altro. Da una prospettiva bottom-up, infatti, l’integrazione ha un carattere essenzialmente pragmatico, che non ha a che vedere col “diventare uno di noi”, ma piuttosto con la possibilità di realizzare una “buona vita”.
2014
978-88-917-1046-8
Cosa significa l'integrazione? Quando a rispondere sono gli immigrati / Spano', Antonella; Domecka, Markieta. - (2014), pp. 215-236.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11588/615372
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