Il testo parte dalla assunto secondo il quale porre oggi al centro della riflessione teorica sull’architettura la questione del rapporto con la realtà parta dalla constatazione di una crisi: nel mondo contemporaneo la progressiva virtualizzazione, in ogni campo dell’arte e della vita umana in genere, si è spinta eccessivamente in avanti producendo spesso la smaterializzazione delle cose che da reali sono diventate immaginarie: l’economia, i valori, l’architettura, le città. Emerge così un evidente e preoccupante paradosso in quanto se, da un lato, l’attuale condizione sarebbe quella che, più di ogni altra, rappresenta la realtà delle cose, dall’altro il problema è che - e qui il paradosso - questo presunto rispecchiamento totale ha ad oggetto cose che non sono più reali: si pensi, per fare un esempio di attualità, alla questione dei prodotti finanziari e alle conseguenze della loro volatilizzazione. In più, quando si arriva a quella che Gregotti chiama la coincidenza assoluta nei confronti dello stato delle cose, subentra una ulteriore problematica che è quella della rinuncia, che tale atteggiamento nasconde, a qualsiasi giudizio critico sulla realtà e quindi alla possibilità di intervenire legittimamente per modificarla: nel caso dell’architettura si tratta della rinuncia a costruire uno spazio reale e adeguato per la vita dell’uomo. Il richiamo alla realtà è una costante ciclica in architettura apparso, con diverse caratteristiche e spesso aggettivazioni, in diversi momenti della nostra storia: i diversi realismi sono però tutti accomunati dall’essere una reazione a una condizione della disciplina considerata negativa. Ma è abbastanza difficile oggi circoscrivere questa riflessione nei confini disciplinari sia perché l’architettura riguarda l’uomo e il suo essere nel mondo sia perché sono i confini della condizione di crisi che travalicano quelli dello specifico disciplinare. È da questo punto di vista che si spiega perché il richiamo al realismo venga oggi da più parti: con molta forza nel campo filosofico che si occupa di pensiero generalista, sull’uomo e sul mondo, per sua stessa definizione. Ma è dal medesimo punto di vista che si spiega perché il realismo interessi l’architettura che di un mondo, e per l’uomo collettivamente inteso, è arte creatrice. Una possibile riflessione comune quindi, tra diversi campi del sapere, che deve però non essere offuscata da pericolosi equivoci che pure in passato hanno contraddistinto l’incontro delle due discipline e che riguarda l’attenzione a non travalicare i propri specifici campi di pertinenza: la riflessione filosofica che riguarda nella attualità il nuovo realismo non può essere tradotta - né d’altra parte ha manifestato l’ambizione a farlo - in teoria architettonica né tantomeno in uno stile o, peggio, meccanicamente in forme dell’architettura. La riflessione comune può essere fertile se e solo se si parte dalla affermazione della autonomia della architettura, riconoscendo peraltro, quale peculiarità della nostra disciplina, il suo essere al centro di un campo di forze a ‘geometria variabile’. Dunque l’architettura, seguendo la definizione di Samonà, ha il compito di interpretare e leggere una realtà complessa e in divenire - nel campo del sociale, dell’economico, della cultura - ma questa realtà deve poi, attraverso lo strumento del progetto, poterla fissare e rappresentare in fabricae che rispondano alle regole della costruzione, secondo un principio di continuità nel tempo e nello spazio, restituendo alla collettività una interpretazione della realtà e una aspirazione al suo miglioramento che la collettività stessa deve poter riconoscere. Ma il dissidio tra autonomia ed eteronomia non è l’unico che riguarda la nostra disciplina per la quale esiste una difficoltà definitoria alquanto singolare. Anche questa è una vecchia questione: l’architettura è arte o scienza (del costruire)? In realtà la risposta a questo interrogativo presenta alcuni gradi di complessità. Non vi è dubbio che alcuni fondamenti dell’architettura siano nel sapere scientifico e tecnico, il quale però sta all’architettura in un rapporto essenziale ma strumentale: non può in ogni caso confondersi con il suo fine che è quello della rappresentazione dei valori civili di una società e il cui raggiungimento passa anche per un contenuto espressivo tanto è che l’architettura, in campo filosofico, è sottoposta a riflessione estetica. In questo dualismo risiede una importante specificità del nostro lavoro che Vittorio Gregotti ha risolto nella definizione di architettura come pratica artistica. Seppure è vero che l’aggettivazione ‘artistica’ nasconde qualche insidia, tuttavia Gregotti è chiarissimo nel definire la distanza che l’architettura ha tanto dalla pura arte quanto dalla pura scienza. Gregotti infatti, in più di uno dei suoi testi, afferma che la sostanziale differenza con il pensiero scientifico, alla cui evoluzione in campo razionale pure attribuisce lo straordinario merito di aver cambiato la nostra relazione con l’universo, ha obiettivi e procedimenti profondamente differenti da quelli dell’architettura. Il pensiero scientifico ha come scopo e destino il suo stesso, continuo, superamento a differenza di quanto avviene nel campo dell’arte dove ogni opera riuscita aggiunge un frammento di verità a ciò che già esiste, con una aspirazione alla continuità ed alla eternità che ne sono i caratteri distintivi. In tal senso l’architettura è ‘artistica’ anche se la sua tipicità è nel fare e in quanto tale è ‘pratica’.

Realtà e responsabilità dell'architettura / Visconti, Federica. - 1:(2013), pp. 244-250.

Realtà e responsabilità dell'architettura

VISCONTI, FEDERICA
2013

Abstract

Il testo parte dalla assunto secondo il quale porre oggi al centro della riflessione teorica sull’architettura la questione del rapporto con la realtà parta dalla constatazione di una crisi: nel mondo contemporaneo la progressiva virtualizzazione, in ogni campo dell’arte e della vita umana in genere, si è spinta eccessivamente in avanti producendo spesso la smaterializzazione delle cose che da reali sono diventate immaginarie: l’economia, i valori, l’architettura, le città. Emerge così un evidente e preoccupante paradosso in quanto se, da un lato, l’attuale condizione sarebbe quella che, più di ogni altra, rappresenta la realtà delle cose, dall’altro il problema è che - e qui il paradosso - questo presunto rispecchiamento totale ha ad oggetto cose che non sono più reali: si pensi, per fare un esempio di attualità, alla questione dei prodotti finanziari e alle conseguenze della loro volatilizzazione. In più, quando si arriva a quella che Gregotti chiama la coincidenza assoluta nei confronti dello stato delle cose, subentra una ulteriore problematica che è quella della rinuncia, che tale atteggiamento nasconde, a qualsiasi giudizio critico sulla realtà e quindi alla possibilità di intervenire legittimamente per modificarla: nel caso dell’architettura si tratta della rinuncia a costruire uno spazio reale e adeguato per la vita dell’uomo. Il richiamo alla realtà è una costante ciclica in architettura apparso, con diverse caratteristiche e spesso aggettivazioni, in diversi momenti della nostra storia: i diversi realismi sono però tutti accomunati dall’essere una reazione a una condizione della disciplina considerata negativa. Ma è abbastanza difficile oggi circoscrivere questa riflessione nei confini disciplinari sia perché l’architettura riguarda l’uomo e il suo essere nel mondo sia perché sono i confini della condizione di crisi che travalicano quelli dello specifico disciplinare. È da questo punto di vista che si spiega perché il richiamo al realismo venga oggi da più parti: con molta forza nel campo filosofico che si occupa di pensiero generalista, sull’uomo e sul mondo, per sua stessa definizione. Ma è dal medesimo punto di vista che si spiega perché il realismo interessi l’architettura che di un mondo, e per l’uomo collettivamente inteso, è arte creatrice. Una possibile riflessione comune quindi, tra diversi campi del sapere, che deve però non essere offuscata da pericolosi equivoci che pure in passato hanno contraddistinto l’incontro delle due discipline e che riguarda l’attenzione a non travalicare i propri specifici campi di pertinenza: la riflessione filosofica che riguarda nella attualità il nuovo realismo non può essere tradotta - né d’altra parte ha manifestato l’ambizione a farlo - in teoria architettonica né tantomeno in uno stile o, peggio, meccanicamente in forme dell’architettura. La riflessione comune può essere fertile se e solo se si parte dalla affermazione della autonomia della architettura, riconoscendo peraltro, quale peculiarità della nostra disciplina, il suo essere al centro di un campo di forze a ‘geometria variabile’. Dunque l’architettura, seguendo la definizione di Samonà, ha il compito di interpretare e leggere una realtà complessa e in divenire - nel campo del sociale, dell’economico, della cultura - ma questa realtà deve poi, attraverso lo strumento del progetto, poterla fissare e rappresentare in fabricae che rispondano alle regole della costruzione, secondo un principio di continuità nel tempo e nello spazio, restituendo alla collettività una interpretazione della realtà e una aspirazione al suo miglioramento che la collettività stessa deve poter riconoscere. Ma il dissidio tra autonomia ed eteronomia non è l’unico che riguarda la nostra disciplina per la quale esiste una difficoltà definitoria alquanto singolare. Anche questa è una vecchia questione: l’architettura è arte o scienza (del costruire)? In realtà la risposta a questo interrogativo presenta alcuni gradi di complessità. Non vi è dubbio che alcuni fondamenti dell’architettura siano nel sapere scientifico e tecnico, il quale però sta all’architettura in un rapporto essenziale ma strumentale: non può in ogni caso confondersi con il suo fine che è quello della rappresentazione dei valori civili di una società e il cui raggiungimento passa anche per un contenuto espressivo tanto è che l’architettura, in campo filosofico, è sottoposta a riflessione estetica. In questo dualismo risiede una importante specificità del nostro lavoro che Vittorio Gregotti ha risolto nella definizione di architettura come pratica artistica. Seppure è vero che l’aggettivazione ‘artistica’ nasconde qualche insidia, tuttavia Gregotti è chiarissimo nel definire la distanza che l’architettura ha tanto dalla pura arte quanto dalla pura scienza. Gregotti infatti, in più di uno dei suoi testi, afferma che la sostanziale differenza con il pensiero scientifico, alla cui evoluzione in campo razionale pure attribuisce lo straordinario merito di aver cambiato la nostra relazione con l’universo, ha obiettivi e procedimenti profondamente differenti da quelli dell’architettura. Il pensiero scientifico ha come scopo e destino il suo stesso, continuo, superamento a differenza di quanto avviene nel campo dell’arte dove ogni opera riuscita aggiunge un frammento di verità a ciò che già esiste, con una aspirazione alla continuità ed alla eternità che ne sono i caratteri distintivi. In tal senso l’architettura è ‘artistica’ anche se la sua tipicità è nel fare e in quanto tale è ‘pratica’.
2013
9788838762321
Realtà e responsabilità dell'architettura / Visconti, Federica. - 1:(2013), pp. 244-250.
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