Con l’età dei lumi e nello specchio del Grand Tour la rappresentazione dei Campi Flegrei evolve verso una rinnovata dimensione culturale: l’attualità archeologica, nella vasta eco suscitata da Ercolano e Pompei, suggerisce una rilettura del paesaggio e delle vestigia flegree, anch’esse in qualche modo ritrovate pur non essendo mai state sepolte come quelle delle città vesuviane. Nello specchio di queste idee, anche l’iconografia rivela nuove intenzioni: paesaggio, natura e sedimentazione archeologica, depurati dalla fantasmagoria del mito, appaiono riletti da una logica scientifica che trova nel pittoresco, in quell’idea di natura attraente per la sua varietà, la più alta espressione. È la stagione di quelle vedute senza confini di cui scriveva Goethe, è il tempo degli ampi panorami fra cielo e mare incisi o dipinti da Gabriele Ricciardelli, da Juan e Tommaso Ruiz, da Peter Fabris o da Philipp Hackert che riprendevano l’ondulato paesaggio flegreo ora dalle rive assolate, ora dalle lussureggianti colline. Con l’inizio dell’Ottocento, continua la fortuna iconografica dei Campi Flegrei, continuano i viaggi a Pozzuoli, a Baia e iniziano quelli nelle isole flegree di Ischia e Procida fin allora quasi del tutto escluse dai tradizionali itinerari del Grand Tour, come del resto lo era stata anche Capri. Una nuova lunga stagione di fortuna iconografica che, dalla diffusione di sedimentati tòpoi vedutistici veicolati dalle gouaches perverrà, dai primi decenni del Novecento, alla rappresentazione fotografica delle immagini da cartolina. Soggetti figurativi commerciali facilmente trasportabili e immediatamente riconoscibili, autentici souvenirs per ricordare la visita alle antichità di Pozzuoli e Baia o, a limite, incoraggiarla. Requisiti ancor più soddisfatti dalla fotografia quando, dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in forte ritardo rispetto a quanto si sperimentava in Europa almeno da quarant’anni, i nuovi ritratti dei grandi reportages delle officine Alinari o Brogi reinterpretano alla luce dei nuovi tempi e delle nuove tecniche la maestà scenica del paesaggio flegreo, quell’insieme di suggestioni così già straordinariamente ricco e sedimentato. Erano gli anni in cui la sensibilità dei fotografi, nei Campi Flegrei come altrove, salutava con tutta l’enfasi e la retorica che di solito accompagnano un aggiornamento culturale, il realismo, l’urgenza, di chiara marca positivista, di verità nella rappresentazione dei luoghi. Un ritratto che con le immagini fotografiche – di per sé perentoriamente descrittive – non era più affidato a quella matita che William Fox Talbot, il celebre fisico, letterato nonché inventore della calcotipia, definiva ‘infedele’ prima di fissare, nel 1834, quella che amava definire «l’inimitabile bellezza delle immagini dipinte dalla natura» nei photogenic drawings. Più tardi queste idee raggiungono anche i Campi Flegrei inserendosi nel solco del turismo borghese, canonizzato, in una dimensione europea, dalle imprese editoriali di Thomas Cook di John Murray e di Karl Baedeker destinate a sostituire i colti resoconti dei protagonisti del Grand Tour. Così il nuovo viaggio, con quella rapidità così tipica del volgere del XIX secolo, imponeva i propri tempi che anche gli artisti più frettolosi o le più efficienti officine litografiche non riusciranno a soddisfare. E se intenzione della fotografia è l’immediatezza informativa, il vedere tutto, senza selezionare alcunché, accade che i fotografi confermano i punti di vista sui quali da secoli si fermavano gli artisti a ritrarre l’iperbole del luogo flegreo, fra natura e memorie mitologiche e antiquarie.

Vedutismo pittoresco e punti di vista nelle fotografie dei Campi Flegrei sul volgere del XIX secolo / DI LIELLO, Salvatore. - In: STORIA DELL'URBANISTICA. - ISSN 2035-8733. - STAMPA. - II:(2010), pp. 228-236.

Vedutismo pittoresco e punti di vista nelle fotografie dei Campi Flegrei sul volgere del XIX secolo

DI LIELLO, SALVATORE
2010

Abstract

Con l’età dei lumi e nello specchio del Grand Tour la rappresentazione dei Campi Flegrei evolve verso una rinnovata dimensione culturale: l’attualità archeologica, nella vasta eco suscitata da Ercolano e Pompei, suggerisce una rilettura del paesaggio e delle vestigia flegree, anch’esse in qualche modo ritrovate pur non essendo mai state sepolte come quelle delle città vesuviane. Nello specchio di queste idee, anche l’iconografia rivela nuove intenzioni: paesaggio, natura e sedimentazione archeologica, depurati dalla fantasmagoria del mito, appaiono riletti da una logica scientifica che trova nel pittoresco, in quell’idea di natura attraente per la sua varietà, la più alta espressione. È la stagione di quelle vedute senza confini di cui scriveva Goethe, è il tempo degli ampi panorami fra cielo e mare incisi o dipinti da Gabriele Ricciardelli, da Juan e Tommaso Ruiz, da Peter Fabris o da Philipp Hackert che riprendevano l’ondulato paesaggio flegreo ora dalle rive assolate, ora dalle lussureggianti colline. Con l’inizio dell’Ottocento, continua la fortuna iconografica dei Campi Flegrei, continuano i viaggi a Pozzuoli, a Baia e iniziano quelli nelle isole flegree di Ischia e Procida fin allora quasi del tutto escluse dai tradizionali itinerari del Grand Tour, come del resto lo era stata anche Capri. Una nuova lunga stagione di fortuna iconografica che, dalla diffusione di sedimentati tòpoi vedutistici veicolati dalle gouaches perverrà, dai primi decenni del Novecento, alla rappresentazione fotografica delle immagini da cartolina. Soggetti figurativi commerciali facilmente trasportabili e immediatamente riconoscibili, autentici souvenirs per ricordare la visita alle antichità di Pozzuoli e Baia o, a limite, incoraggiarla. Requisiti ancor più soddisfatti dalla fotografia quando, dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in forte ritardo rispetto a quanto si sperimentava in Europa almeno da quarant’anni, i nuovi ritratti dei grandi reportages delle officine Alinari o Brogi reinterpretano alla luce dei nuovi tempi e delle nuove tecniche la maestà scenica del paesaggio flegreo, quell’insieme di suggestioni così già straordinariamente ricco e sedimentato. Erano gli anni in cui la sensibilità dei fotografi, nei Campi Flegrei come altrove, salutava con tutta l’enfasi e la retorica che di solito accompagnano un aggiornamento culturale, il realismo, l’urgenza, di chiara marca positivista, di verità nella rappresentazione dei luoghi. Un ritratto che con le immagini fotografiche – di per sé perentoriamente descrittive – non era più affidato a quella matita che William Fox Talbot, il celebre fisico, letterato nonché inventore della calcotipia, definiva ‘infedele’ prima di fissare, nel 1834, quella che amava definire «l’inimitabile bellezza delle immagini dipinte dalla natura» nei photogenic drawings. Più tardi queste idee raggiungono anche i Campi Flegrei inserendosi nel solco del turismo borghese, canonizzato, in una dimensione europea, dalle imprese editoriali di Thomas Cook di John Murray e di Karl Baedeker destinate a sostituire i colti resoconti dei protagonisti del Grand Tour. Così il nuovo viaggio, con quella rapidità così tipica del volgere del XIX secolo, imponeva i propri tempi che anche gli artisti più frettolosi o le più efficienti officine litografiche non riusciranno a soddisfare. E se intenzione della fotografia è l’immediatezza informativa, il vedere tutto, senza selezionare alcunché, accade che i fotografi confermano i punti di vista sui quali da secoli si fermavano gli artisti a ritrarre l’iperbole del luogo flegreo, fra natura e memorie mitologiche e antiquarie.
2010
Vedutismo pittoresco e punti di vista nelle fotografie dei Campi Flegrei sul volgere del XIX secolo / DI LIELLO, Salvatore. - In: STORIA DELL'URBANISTICA. - ISSN 2035-8733. - STAMPA. - II:(2010), pp. 228-236.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11588/467013
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