La citazione di Ludwig Mies van der Rohe che Renato Capozzi pone a esergo del proprio testo introduttivo a questo libro è da leggersi in strettissima connessione con l’Inno di Goethe Grenzen der Menshheit (Limiti dell’umano), composto dallo scrittore tedesco intorno al 1781. Scrive infatti Goethe: «S’egli [l’uomo] s’alza e col capo | tocca le stelle, | in nessun luogo allora | poggian le incerte piante, | ed egli è preda | di nuvole e venti. || Se con solide membra | sta vigoroso | sulla ben fondata | stabile terra, | tanto non s’alza | da compararsi | con la quercia | o col pampino». Questi – per Goethe – sono i limiti che caratterizzano l’uomo, l’umano; e pericolosissima hybris è cercare di oltrepassarli. Apparentemente, proprio quanto si propone di fare Mies van der Rohe: poggiare saldamente i piedi per terra e raggiungere con la testa le nuvole. Da quando Renato Capozzi e Federica Visconti hanno intrecciato i loro percorsi architettonici, ormai alcuni anni fa, si sono sempre dimostrati fedeli nel servire una ben precisa idea di architettura. Anzi, si potrebbe quasi dire che per loro l’architettura consista in questa forma di fedeltà ad un’idea, più ancora di quanto non sia una attività professionale rivolta agli scopi cui questa comunemente si rivolge. L’idea di architettura alla quale Renato Capozzi e Federica Visconti attendono fedelmente è quella che si lascia definire con il termine “razionale”; un’idea che ha attraversato la storia, passando da Durand a Hilberseimer, per giungere alla mostra della XV Triennale di Milano del 1973 curata da Aldo Rossi. Nella versione in cui Capozzi e Visconti la assumono, l’architettura razionale s’incrocia con il realismo – un incrocio quasi necessario, obbligato, sulla base della nota affermazione di Hegel contenuta nei Lineamenti della filosofia del diritto: «Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Il realismo come principio di ragione comporta (o almeno auspica) una perfetta coerenza, e di più ancora, una perfetta aderenza delle cose a se stesse. Si tratta di un’idea di architettura che cerca di porre un argine al mondo delle “possibilità e rappresentazioni” presuntamente infinite dell’epoca postmoderna; un’idea di architettura che sappia tornare a stabilire fondamenti e certezze. In questo tentativo i progetti di Capozzi e Visconti dimostrano la propria fedeltà all’“architettura della realtà” di Antonio Monestiroli, all’“architettura come lingua morta” di Giorgio Grassi, all’“esattezza della geometria progettuale” di Gianugo Polesello, all’“architettura urbana” di Uberto Siola, all’“architettura rigorosa” di Salvatore Bisogni, all’“architettura immutabile” di Agostino Renna, al “classico” di Mies van der Rohe. [...] Ma l’insistenza con cui tali progetti affermano e tenacemente ribadiscono il loro legame con tutte queste radici attesta qualcosa di più: testimonia della presenza in essi di una volontà, di uno sforzo – uno Streben – che va oltre la semplice affermazione di se stessi o delle loro “funzioni”; e anche va oltre l’incantamento del referente come mero gioco di specchi. Perché un’idea di architettura – se davvero è un’idea, e non un suo simulacro –, più ancora che su determinati linguaggi o sintassi, è fondata sulla logica ad essa inerente. Ed è a questa logica che rimanda con tutta evidenza l’intero lavoro di Renato Capozzi e Federica Visconti. (dall'introduzione "Quel che resta dell'architettura" di Marco Biraghi)
CAPOZZI VISCONTI. 10 Architetture 2013 | 2018 / 10 Architectures 2013 | 2018 / Capozzi, R.; Visconti, F.. - (2018), pp. 1-128.
CAPOZZI VISCONTI. 10 Architetture 2013 | 2018 / 10 Architectures 2013 | 2018
R. CAPOZZI;F. VISCONTI
2018
Abstract
La citazione di Ludwig Mies van der Rohe che Renato Capozzi pone a esergo del proprio testo introduttivo a questo libro è da leggersi in strettissima connessione con l’Inno di Goethe Grenzen der Menshheit (Limiti dell’umano), composto dallo scrittore tedesco intorno al 1781. Scrive infatti Goethe: «S’egli [l’uomo] s’alza e col capo | tocca le stelle, | in nessun luogo allora | poggian le incerte piante, | ed egli è preda | di nuvole e venti. || Se con solide membra | sta vigoroso | sulla ben fondata | stabile terra, | tanto non s’alza | da compararsi | con la quercia | o col pampino». Questi – per Goethe – sono i limiti che caratterizzano l’uomo, l’umano; e pericolosissima hybris è cercare di oltrepassarli. Apparentemente, proprio quanto si propone di fare Mies van der Rohe: poggiare saldamente i piedi per terra e raggiungere con la testa le nuvole. Da quando Renato Capozzi e Federica Visconti hanno intrecciato i loro percorsi architettonici, ormai alcuni anni fa, si sono sempre dimostrati fedeli nel servire una ben precisa idea di architettura. Anzi, si potrebbe quasi dire che per loro l’architettura consista in questa forma di fedeltà ad un’idea, più ancora di quanto non sia una attività professionale rivolta agli scopi cui questa comunemente si rivolge. L’idea di architettura alla quale Renato Capozzi e Federica Visconti attendono fedelmente è quella che si lascia definire con il termine “razionale”; un’idea che ha attraversato la storia, passando da Durand a Hilberseimer, per giungere alla mostra della XV Triennale di Milano del 1973 curata da Aldo Rossi. Nella versione in cui Capozzi e Visconti la assumono, l’architettura razionale s’incrocia con il realismo – un incrocio quasi necessario, obbligato, sulla base della nota affermazione di Hegel contenuta nei Lineamenti della filosofia del diritto: «Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Il realismo come principio di ragione comporta (o almeno auspica) una perfetta coerenza, e di più ancora, una perfetta aderenza delle cose a se stesse. Si tratta di un’idea di architettura che cerca di porre un argine al mondo delle “possibilità e rappresentazioni” presuntamente infinite dell’epoca postmoderna; un’idea di architettura che sappia tornare a stabilire fondamenti e certezze. In questo tentativo i progetti di Capozzi e Visconti dimostrano la propria fedeltà all’“architettura della realtà” di Antonio Monestiroli, all’“architettura come lingua morta” di Giorgio Grassi, all’“esattezza della geometria progettuale” di Gianugo Polesello, all’“architettura urbana” di Uberto Siola, all’“architettura rigorosa” di Salvatore Bisogni, all’“architettura immutabile” di Agostino Renna, al “classico” di Mies van der Rohe. [...] Ma l’insistenza con cui tali progetti affermano e tenacemente ribadiscono il loro legame con tutte queste radici attesta qualcosa di più: testimonia della presenza in essi di una volontà, di uno sforzo – uno Streben – che va oltre la semplice affermazione di se stessi o delle loro “funzioni”; e anche va oltre l’incantamento del referente come mero gioco di specchi. Perché un’idea di architettura – se davvero è un’idea, e non un suo simulacro –, più ancora che su determinati linguaggi o sintassi, è fondata sulla logica ad essa inerente. Ed è a questa logica che rimanda con tutta evidenza l’intero lavoro di Renato Capozzi e Federica Visconti. (dall'introduzione "Quel che resta dell'architettura" di Marco Biraghi)File | Dimensione | Formato | |
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