La tesi del saggio è che l’origine stessa dell’architettura si fonda sul terreno etico, essendo l’etico, o l’etica, dal greco ethikè, èthos-sfèthos, l’abituale, il consueto, ovvero dal sanscrito, sva-thè, il porre, fare (thè), proprio, suo (sva). Ethos, in quanto è l’abituale è altresì l’habere, l’habitus, l’abitare, ciò che ci è con/sueto (suus, proprio), ciò di cui abbiamo abitudine, ciò che ci è familiare e con cui abbiamo dimestichezza, ovvero il domestico, ciò che appartiene alla casa, ovvero, ancora, ciò che ci è proprio, ciò che è il proprio dell’uomo. Riprendendo il frammento 119 di Eraclito, ethos anthropou daimon, l’indole, ciò che è all’uomo più proprio, è demone, Agamben traduce: “l’ethos, la dimora abituale, è, per l’uomo, ciò che lacera e divide”. L’essere umano cioè, l’essere proprio dell’uomo, il suo ethos è, secondo Agamben, nel suo generarsi nella relazione con il mondo. Etica è il suo proprio nel senso che è la maniera, la quale non accade né è fondante, che lo genera come auto generante, sì da mostrare come lo stesso suo proprio sia nell’improprietà. Pensare tale infondatezza dell’uomo, ovvero all’uomo come manifestazione di una autofondazione che annulla il senso stesso del fondare e, quindi, come fondamento negativo o negazione del fondamento, implica il pensare l’assoluto – ab-se-luo, dove il -se rinvia al suus ed insieme al solus e luo allo sciogliere – non come una astratta ragione o entità quantonell’assolvere dell’uomo, quasi un rispondere ad un mandato, al provenire (ab) che conduce al sé, al proprio, nella sua solitudine 4, rispetto agli altri viventi che vivono in organicità con la natura, come sua consuetudine, sciolto da legami: “etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera. E questo essere generati dalla propria maniera è la sola felicità veramente possibile per gli uomini … L’improprietà, che esponiamo come il nostro essere proprio, la maniera, che usiamo, ci genera, è la nostra seconda, più felice natura”. Per questo il proprio dell’uomo, la sua dimora abituale, è daimon, il laceratore, ciò che divide, da daiomai, “lacerare”, “dividere”, nel senso che il suo stare al mondo è in una scissione, quella di un vivente, di un animale, che, diversamente dagli altri animali, diviso tra natura e cultura, alla ricerca costante dello stare, fa esperienza della propria infondatezza, tuttavia per lui fondante. L’ethos dell’uomo, ciò che gli è più proprio e abituale, è quindi in un fare che è in-fondato, che pone da sé il suo fondamento e che, quindi, non si dispone assecondando la natura essendo intrinsecamente “violento”, lacerante, rispetto all’uomo stesso il quale, nel realizzarsi nella storia, prende posizione, prende partito, assume una parte, rispetto al mondo, fondandone la liceità (anche morale) in una infondatezza. Il frammento di Eraclito, secondo Agamben, vuol dire dunque che l’uomo è quel solo vivente che deve agire per costituire il suo proprio, il sé ed il mondo nella loro relazione, essendo gettato nell’improprietà, nella lacerazione da cui innalza costruzioni, concrete e mentali, assume abitudini, abiti, costumi, sì che la sua azione “negativa” con cui assimila le cose ed allestisce un mondo, non è rivolta né ad una finale ragione assoluta né mossa da un originario e vuoto niente, possedendo in sé stessa la sua fondazione. In quanto estraneo al mondo, all’ambiente in cui è gettato, solo, rispetto agli altri animali, rivolto a dar vita a se stesso attraverso il portarsi in consuetudini, in com-portamenti, l’uomo costituisce da sé il suo proprio, il suo ethos che, per ciò stesso, in quanto non dato in sorte ma infondato, è daimon, indestinato modo di darsi un destino, intramandato modo di darsi tradizioni, storia. L’etica, il portarsi dell’uomo nel proprio, è quindi possibile solo in quanto daimon, nel senso che, se egli avesse un destino scritto, comportamenti assegnati, non sarebbe dato a lui, alla sua propria responsabilità (nel senso di risponderne, corrispondere) ed azione, costruirsi un mondo, definire una etologia. Questo non significa che egli è abbandonato in un nulla originario da cui si diparte nel costruire il suo ambiente, il suo habitat, quanto che è la sua condizione a fargli possedere la potenza di essere o non essere (anche nulla). Oltre la colpa che avverte in tale potenza l’uomo quindi è sempre nascituro che trova nel mondo il suo utero in un continuo nascere a sé stesso in cui svapora la differenza ontologica tra essere ed ente rilevata anche da Heidegger, generandosi l’essere nell’ente, nella stessa esistenza secondo la sua maniera. Di qu, dal suo essere legata all'eticoi il necessario carattere "aperto" dell'architettura, se si vuole il suo rinnovato "eroismo"
L'etico e il sacro dell'architettura / Cuomo, Alberto. - In: BLOOM. - ISSN 2035-5033. - ELETTRONICO. - 1:16(2013), pp. 51-54.
L'etico e il sacro dell'architettura
CUOMO, ALBERTO
2013
Abstract
La tesi del saggio è che l’origine stessa dell’architettura si fonda sul terreno etico, essendo l’etico, o l’etica, dal greco ethikè, èthos-sfèthos, l’abituale, il consueto, ovvero dal sanscrito, sva-thè, il porre, fare (thè), proprio, suo (sva). Ethos, in quanto è l’abituale è altresì l’habere, l’habitus, l’abitare, ciò che ci è con/sueto (suus, proprio), ciò di cui abbiamo abitudine, ciò che ci è familiare e con cui abbiamo dimestichezza, ovvero il domestico, ciò che appartiene alla casa, ovvero, ancora, ciò che ci è proprio, ciò che è il proprio dell’uomo. Riprendendo il frammento 119 di Eraclito, ethos anthropou daimon, l’indole, ciò che è all’uomo più proprio, è demone, Agamben traduce: “l’ethos, la dimora abituale, è, per l’uomo, ciò che lacera e divide”. L’essere umano cioè, l’essere proprio dell’uomo, il suo ethos è, secondo Agamben, nel suo generarsi nella relazione con il mondo. Etica è il suo proprio nel senso che è la maniera, la quale non accade né è fondante, che lo genera come auto generante, sì da mostrare come lo stesso suo proprio sia nell’improprietà. Pensare tale infondatezza dell’uomo, ovvero all’uomo come manifestazione di una autofondazione che annulla il senso stesso del fondare e, quindi, come fondamento negativo o negazione del fondamento, implica il pensare l’assoluto – ab-se-luo, dove il -se rinvia al suus ed insieme al solus e luo allo sciogliere – non come una astratta ragione o entità quantonell’assolvere dell’uomo, quasi un rispondere ad un mandato, al provenire (ab) che conduce al sé, al proprio, nella sua solitudine 4, rispetto agli altri viventi che vivono in organicità con la natura, come sua consuetudine, sciolto da legami: “etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera. E questo essere generati dalla propria maniera è la sola felicità veramente possibile per gli uomini … L’improprietà, che esponiamo come il nostro essere proprio, la maniera, che usiamo, ci genera, è la nostra seconda, più felice natura”. Per questo il proprio dell’uomo, la sua dimora abituale, è daimon, il laceratore, ciò che divide, da daiomai, “lacerare”, “dividere”, nel senso che il suo stare al mondo è in una scissione, quella di un vivente, di un animale, che, diversamente dagli altri animali, diviso tra natura e cultura, alla ricerca costante dello stare, fa esperienza della propria infondatezza, tuttavia per lui fondante. L’ethos dell’uomo, ciò che gli è più proprio e abituale, è quindi in un fare che è in-fondato, che pone da sé il suo fondamento e che, quindi, non si dispone assecondando la natura essendo intrinsecamente “violento”, lacerante, rispetto all’uomo stesso il quale, nel realizzarsi nella storia, prende posizione, prende partito, assume una parte, rispetto al mondo, fondandone la liceità (anche morale) in una infondatezza. Il frammento di Eraclito, secondo Agamben, vuol dire dunque che l’uomo è quel solo vivente che deve agire per costituire il suo proprio, il sé ed il mondo nella loro relazione, essendo gettato nell’improprietà, nella lacerazione da cui innalza costruzioni, concrete e mentali, assume abitudini, abiti, costumi, sì che la sua azione “negativa” con cui assimila le cose ed allestisce un mondo, non è rivolta né ad una finale ragione assoluta né mossa da un originario e vuoto niente, possedendo in sé stessa la sua fondazione. In quanto estraneo al mondo, all’ambiente in cui è gettato, solo, rispetto agli altri animali, rivolto a dar vita a se stesso attraverso il portarsi in consuetudini, in com-portamenti, l’uomo costituisce da sé il suo proprio, il suo ethos che, per ciò stesso, in quanto non dato in sorte ma infondato, è daimon, indestinato modo di darsi un destino, intramandato modo di darsi tradizioni, storia. L’etica, il portarsi dell’uomo nel proprio, è quindi possibile solo in quanto daimon, nel senso che, se egli avesse un destino scritto, comportamenti assegnati, non sarebbe dato a lui, alla sua propria responsabilità (nel senso di risponderne, corrispondere) ed azione, costruirsi un mondo, definire una etologia. Questo non significa che egli è abbandonato in un nulla originario da cui si diparte nel costruire il suo ambiente, il suo habitat, quanto che è la sua condizione a fargli possedere la potenza di essere o non essere (anche nulla). Oltre la colpa che avverte in tale potenza l’uomo quindi è sempre nascituro che trova nel mondo il suo utero in un continuo nascere a sé stesso in cui svapora la differenza ontologica tra essere ed ente rilevata anche da Heidegger, generandosi l’essere nell’ente, nella stessa esistenza secondo la sua maniera. Di qu, dal suo essere legata all'eticoi il necessario carattere "aperto" dell'architettura, se si vuole il suo rinnovato "eroismo"File | Dimensione | Formato | |
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