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Esplorando i contesti educativi universitari: dall’analisi delle riforme alle esperienze di pratiche educative |
di Alessandra Romano |
DOI: 10.12897/01.00030 This article represents a contribution to the development of a critical analysis of the consequences on the social, organizational, cultural and political levels of the reforms carried out in the Italian university system. After this analytical overview, it follows the theoretical exploration of possible paths to be recovered as references in teaching, and the description of methodologies and innovative educational practices, all experienced in the framework of the activities of the Laboratory of Epistemology and Educational Practices of the Department of Humanities of the University of Naples “Federico II”.
Il presente articolo rappresenta un contributo di analisi critica delle conseguenze sul piano sociale, organizzativo, culturale e politico delle riforme attuate nel sistema universitario italiano. A questa rassegna analitica segue l’esplorazione di possibili percorsi teorici da recuperare come riferimento nel panorama pedagogico, e la descrizione di metodologie e pratiche educative innovative sperimentate nell’ambito delle attività didattiche universitarie del Laboratorio di Epistemologie e Pratiche dell’Educazione del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli.
1. Analisi critica delle trasformazioni esplicite ed implicite delle riforme nel sistema universitario
Ricerca, innovazione e sviluppo sono i tre settori cruciali dello sviluppo globale: settori nei quali, purtroppo, l’Europa (e con essa, in misura maggiore, l’Italia), ha accumulato un grave ritardo strutturale, rispetto al quale ha trovato terreno fertile lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale nei Paesi asiatici. Ne sono scaturite azioni di riforma, che hanno investito il sistema della ricerca nel suo complesso e che ne hanno modificato tutte le regole costitutive, e un’oggettiva crisi delle attività di ricerca e sviluppo in moltissimi settori nei quali, viceversa, l’Italia, fino a pochissimi anni fa, godeva di una posizione di avanguardia nel mondo. Il sistema universitario ha, infatti, modificato totalmente il suo apparato normativo fatta eccezione per lo stato giuridico dei docenti. Al riguardo, basti pensare all’autonomia finanziaria, organizzativa e gestionale, alla riforma degli ordinamenti didattici, alla creazione di un organismo di valutazione nazionale, al sistema di reclutamento dei docenti, al diritto allo studio e, ultimo, alla disciplina del dottorato di ricerca. L’obiettivo a lungo termine è, infatti, quello di costruire un’Unione Europea della ricerca più forte, più coesa e più competitiva, promuovendo la specializzazione intelligente attraverso la creazione di poli forti (clusters nazionali), capaci di intercettare al meglio il flusso dei fondi europei e nazionali destinati allo sviluppo. Dalla riforma di Berlinguer del 1999, con cui venne introdotto il sistema della suddivisione degli anni universitari in “3+2”, passando per la riforma 270/2004, con cui sono state apportate modifiche e riforme alla riforma originaria, la disseminazione dei crediti e dei moduli degli esami ha enfatizzato il nozionismo universitario e contribuito alla frammentazione schizoide del sistema universitario. Anche il CUN (Consiglio Universitario Nazionale) ha ben colto tali aspetti e così si è espresso in proposito: “Il Sistema Universitario e della Ricerca è stato interessato da riforme di vasta portata la cui attuazione si è risolta in un’iperregolazione di difficile leggibilità; le innovazioni introdotte hanno comportato l’adozione di modelli e di soluzioni che si sono volute, incautamente, d’immediata e generalizzata applicazione, senza alcuna preliminare sperimentazione. Le energie delle strutture tecniche e del personale accademico sono state impegnate nell’assolvimento di pesanti oneri organizzativi e funzionali, spesso di natura fortemente burocratica, senza che allo scopo fosse possibile disporre di risorse aggiuntive, né finanziarie né umane. Una sorta di gestione straordinaria che si è aggiunta, aggravandoli, agli ordinari compiti istituzionali e di servizio che gli Atenei e le Comunità Accademiche hanno continuato a prestare nell’interesse della collettività, degli studenti, dei ricercatori, delle altre Istituzioni” (CUN, 2013, p.4). Il sistema universitario produce troppi scarti, con allungamenti e dilatazioni dei tempi di conseguimento del titolo di studio universitario, e abbandono degli studi. Inoltre, sussiste uno scollamento tra l’offerta formativa universitaria e la domanda del mondo del lavoro: questa mancata connessione incide negativamente sull’organizzazione didattica del sistema universitario, che da una parte ha sostituito qualsiasi altro indirizzo formativo professionalizzante, dall’altro ha mostrato le sue carenze nel raccordo con le imprese e con il mercato del lavoro. Su questo punto sarebbe auspicabile un immediato patto di intesa con il mondo imprenditoriale, anche al fine di rendere operativa e concorrenziale la formazione universitaria. All’Università viene affidato il compito di una rinnovata capacità progettuale e creativa in ambiti tradizionali e nuovi, e invita implicitamente a porre una straordinaria enfasi sulla formazione, altra faccia della medaglia dell’innovazione e unica via di superamento della crisi economica mondiale. L’innovazione nasce dalla ricerca. Ma ad essa si arriva attraverso la formazione alla ricerca. Il luogo primo di tale formazione è l’Università. Sono le Università, infatti, a indagare scientificamente la realtà (promozione della ricerca) e a sintonizzare le acquisizioni via via maturate con la formazione. Ed è sempre la ricerca universitaria a progettare una formazione di alto livello, capace di competere a livello globalizzato e di propagare l’innovazione aumentando numero e qualità dei professionisti qualificati. La governance politica tutta, allora, è chiamata a svolgere un immenso lavoro per risalire la difficile china della competitività internazionale della ricerca italiana.Le attività di ricerca e sviluppo, come è noto, producono risultati a lungo termine, sono faticose e spesso ad alto rischio. Ma sono proprio queste attività a “garantire” il futuro. Si potrebbe dire che sono gli investimenti più “etici”, perché si preoccupano più del destino delle generazioni future rispetto agli obiettivi di corto raggio funzionali alla qualità della vita delle generazioni viventi nel presente. Il tentativo di uniformarsi agli standard europei è certamente nota di merito; il rischio paventato e concreto resta comunque quello di mantenere in un assetto di inadeguatezza costante il sistema universitario italiano imponendo criteri sviluppati in altro contesti nazionali. È risaputo, inoltre, che da circa un ventennio in Italia sono progressivamente e significativamente diminuiti gli investimenti destinati al sistema pubblico dell’istruzione, della formazione e della ricerca. Ci si chiede allora come sia possibile continuare a parlare seriamente di formazione, di ricerca e di innovazione in un paese che, nel mettere quotidianamente a repentaglio la sopravvivenza stessa delle strutture, che della ricerca e della formazione dovrebbero essere il cuore pulsante, sembra aver smesso di credere nel proprio futuro. La questione non riguarda solo l’Università, ma tutto il sistema educativo e dell’istruzione. Nella continua e inesorabile restrizione delle risorse e degli spazi per lo sviluppo della ricerca e del libero confronto scientifico si annida, in definitiva, il rischio enorme della progressiva rarefazione del tessuto democratico della vita sociale. È intervenuto, inoltre, un altro fatto di grande rilievo che si potrebbe definire come processo di aziendalizzazione e mercificazione del sapere e, quindi, delle strutture della formazione e della ricerca, che si sono viste sempre più costrette a promuovere se stesse adottando vere e proprie strategie di marketing per attrarre dei “clienti” ai quali offrire servizi di qualità misurati in termini di crediti e di debiti. L’avvenuta adozione di un linguaggio prevalentemente economicistico e mutuato dal mondo della produzione industriale, con l’uso di termini come produttività, dei ‘prodotti’ della ricerca e della valutazione della qualità della ricerca, dell’accreditamento e dei requisiti di assicurazione della Qualità, denota probabilmente il discutibile affermarsi di un modello mercantilistico e utilitaristico del sapere che ha avuto la meglio su altre dimensioni del pensare e del vivere degli uomini condizionando forse irrimediabilmente anche i luoghi dove si elabora e si confronta il libero pensiero. Nussbaum (2011) ha osservato che per mantenere viva la democrazia è necessario invertire quell’orientamento che ha condotto negli ultimi anni a ridurre soprattutto i finanziamenti destinati agli studi umanistici e artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. “Le nazioni – afferma l’Autrice – sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare per sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo” (Nussbaum, 2011, pp. 22-23). Si tratta di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la capacità di pensare criticamente, la libera e disinteressata ricerca, la capacità di trascendere localismi e di affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo e la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro. Si tratta allora di predisporre programmi di formazione alla ricerca che, a partire dalla condivisione di questi obiettivi, siano in grado di garantire l’acquisizione di conoscenze specialistiche, di metodologie e competenze strumentali per favorire percorsi di ricerca originali e personalizzati all’interno, però, di una comunità di ricerca (Wenger, 2006), che costituisca un elemento indispensabile di confronto scientifico. La riflessività diventa il fine formativo e soprattutto l’atteggiamento di criticità rispetto al sapere posseduto dagli studenti, creando in essi, via via, una specifica forma mentis: quella del ricercatore, che è mente e dialettica e critica/autocritica e creativa (Cambi, 2009). La competenza metodologica nella ricerca, l’imparare a fare ricerca si apprende, però, grazie alla partecipazione a contesti di ricerca nei quali i laureandi devono essere necessariamente coinvolti. Se la competenza nella ricerca e nella professione si acquisisce intrecciando lo studio della metodologia con la partecipazione ad una comunità di pratiche, dobbiamo riconfigurare i nostri dipartimenti universitari come comunità di ricerca. Oggi che l’università viene sempre più indirizzata verso una logica d’impresa, occorre ricordare che questa istituzione deve essere prima di tutto una comunità di studiosi (Baldacci, 2009). Lo sviluppo del pensiero critico, autonomo, non omologato, è uno degli obiettivi principali della formazione universitaria perché consente di rifiutare il pregiudizio e la conoscenza precostituita, di sottoporre le opinioni e le tradizioni al vaglio della conoscenza scientificamente fondata, mettendo l’individuo in condizioni di agire e pensare liberamente, di non essere facilmente influenzabile e di superare il dogmatismo. Un metodo critico che ha l’obiettivo di formare cittadini attivi, curiosi, critici e reciprocamente rispettosi giacché, nelle loro esperienze educative, hanno imparato ad analizzare, vagliare, risolvere problemi attraverso la pratica sperimentale e la ricostruzione dell’esperienza. Si tratta di una prospettiva pedagogica indispensabile per affrontare i problemi del presente, il cosiddetto “mondo delle interdipendenze” rispetto al quale nessuno può oggi sentirsi estraneo. Edgar Morin sostiene che i periodi di crisi (ultimo tra i quali quello che la società contemporanea sta attraversando dal punto di vista economico e politico) non possano essere affrontati dignitosamente se non con una specifica educazione alla crisi stessa che attualmente non viene declinata. Morin attualizza un disagio contemporaneo, eppur sempre presente nella storia della riflessione pedagogica: “Non possiamo riformare l’istituzione senza avere prima riformato le menti, ma non possiamo riformare le menti se non abbiamo preventivamente riformato le istituzioni” (Morin, 2000, p.103). Donde partire? Le università rappresenteranno il punto di partenza. Sulla stessa linea è il contributo pedagogico di Donald Alan Schön che individua nell'abilità artistica (o artistry) il fine della comunicazione e della trasmissione tra novizio e tutor. “L’abilità artistica” è un sapere prassico, che si realizza, attua e invera nella prassi, deriva da essa e permea questa; non è un sapere teorizzabile, conoscibile e codificabile da una razionalità teoretica o da una teoresi pedagogica. È un sapere eminentemente applicativo che sorge dalla riflessione autentica sulla pratica professionale. È, dunque, un sapere locale, contestuale, circostanziato, che non risponde alla logica irrigidita e immobilizzata di quella che egli chiama “razionalità tecnica” (Schön, 2006). Gli ambiti nei quali far valere le nostre conoscenze pregresse ed acquisite, sono sempre più bui ed oscuri, confusi e complessi, e queste indeterminate zone della pratica – caratterizzate da incertezza, unicità e conflitto di valore – sfuggono ai canoni della razionalità tecnica. Recalcati parla a tal proposito di “epoca ipermoderna” (Recalcati, 2011, p. 13), un’epoca che rappresenta un superamento e un ripiegamento dell’epoca moderna e contemporanea, ma non una sua progressione lineare. Cambi (2006) sottolinea come tre sono soprattutto i caratteri che contrassegnano la Postmodernità: «il pluralismo come differenza, e la complessità come principio-struttura; l’ottica crescente di mondialità; i saperi (ma anche i soggetti, le identità e le tradizioni) sottoposti insieme a de-costruzione e ri-costruzione secondo paradigmi nuovi» (Cambi, 2006, p.39). Carracedo (1996) distingue una modernità affermativa da un’altra negativa. A partire dalla prima, si è giunti a demolire le illusioni del pensiero logocentrico, e si è proceduto a ricostruire la ragione nella sua natura socio-culturale, insistendo che si tratta sempre di un costrutto perfettibile. Nei rappresentanti della postmodernità negativa, invece, troviamo un atteggiamento chiamato di “rabbia contro la ragione”. Si insiste sulla condanna morale nei confronti degli esiti nefasti della modernità e la si rifiuta totalmente. Gli elementi caratterizzanti che inducono alla disumanizzazione e alla mercificazione della relazione con l’altro in tutte le sue forme, sono il consumismo, la dittatura della tecnica, una produttività meramente efficiente, senza nessuna finalità umanizzante, la sopravvalutazione dell’informazione veicolata soprattutto attraverso i mass-media, che porta ad una sostanziale indifferenza nei confronti del sapere e ad una totale assenza di spirito critico. Il movimento in atto tende alla reificazione dell’uomo e alla personificazione delle cose, dove l’avere sembra prevalere sull’essere, e il predominio del senso della cosalità induce l’orientamento necrofilo dell’uomo contemporaneo, tutto volto alla ricerca spasmodica dell’utilità e dell’utilizzabilità di quello che fa, di quello che produce, di quello che apprende, di quello che consuma. Che ruolo assume il sistema educativo nel formare i cittadini di quest’epoca ipermoderna? Come teorizzato da differenti autori (Recalcati, 2011; Ulivieri Stiozzi, 2012), la generazione di adulti dell’epoca ipermoderna ha rinunciato, o quanto meno sembra incapace di prendere le redini del proprio compito educativo. La formazione è soggiogata ad esigenze cronometriche e a parametri rispetto ai quali sembra non vi sia tempo per la riflessione che vivifica l’apprendimento personale. Più che di una società della conoscenza e dell’informazione, dovremmo “parlare di una società dell’opinione diffusa che scalza continuamente sia una conoscenza autorevole frutto di studio e di ricerca e a cui occorrerebbe riferirsi quale mediatrice di civiltà, sia una corretta informazione indipendente dai centri di potere. […] Il rischio è quello di lasciare che le economie neoliberiste, sempre più slegate dal controllo e dalla regolamentazione dei governi, scelgano le linee di modificazione e di investimento nei sistemi educativi e di istruzione, sempre più orientati verso la mercantilizzazione dell’offerta formativa, la mercificazione dei prodotti ‘culturali’, e la considerazione dei destinatari come clienti/consumatori” (Schettini, 2010, pp.13-14). Sembra che l’università e il sistema formativo, in generale, si siano posti come modello, con norme e regolamentazioni, prestando poca attenzione nei confronti del particolare, del personale, dell’idiografico. Compito dell’educatore e del sistema educativo, in tale liquidità postmoderna dove tutto ciò che è solido sembra svanire nella precarietà di società sempre più in bilico, è coltivare la speranza, è potenziare l’autonomia del soggetto, la sua riflessività, il suo impegno libero e personale, far sì che l’educando trovi se stesso e si costituisca come soggetto in un mondo ancor più, se possibile, interconnesso e interdipendente. L’università diventa il τοπόϛ di una partecipazione attiva, sia dal punto di vista spaziale, dal momento che è la cornice e il luogo fisico deputato alla formazione dei discenti, all’interno della compagine sociale con cui pure deve lavorare in sinergia per la promozione di una partecipazione responsabile, alla vita della comunità sociale, e il luogo metaforico della crescita e dell’apprendimento, entro cui è possibile e pensabile l’acquisizione delle competenze necessarie per l’espressione di una cittadinanza attiva e delle conoscenze teoriche e formali. L’università non può, dunque, esimersi dal fornire spiegazioni alle domande degli studenti sui temi dedotti dall’ambiente culturale, dai vissuti personali, dalla percezione delle emergenze in generale e delle emergenze educative in particolare: per questo sembra porsi al sistema universitario la richiesta di essere attraente, di avviare gli studenti all’acquisizione di abitudini mentali, di “habitus mentale” metacognitivo (Baldacci, 2012, p.131), di incoraggiare il protagonismo giovanile nello sviluppo di life skills utili al benessere stesso dei soggetti. Come si vive la crisi del sistema universitario? E, soprattutto, quali sono gli esiti e le conseguenze di questo processo critico di revisione critica dell’istituzione universitaria? Colore che fanno e che animano l’istituzione universitaria, i docenti, in primis, in chiave critica e speculare, possono interrogarsi sulle proprie teorie e pratiche formative, sui propri modelli, impliciti o meno, di comunicazione con l’allievo, sulle variabili che li hanno guidati verso un particolare indirizzo di ricerca. Interrogarsi, mettersi in discussione, riflettere, sono dispositivi necessari, tanto ad una disciplina quanto a chi ne fa le veci, per intraprendere un percorso di presa di coscienza dell’implicito, del non detto, dell’assunto come vero a priori che si agisce e si porta a vivere nella teoria e nella prassi educativa. È avocando a sé questo dilemma epistemologico che il formatore e la disciplina gettano una luce sulle catene che li condizionano, promuovendo l’assunzione di sguardi più liberi, ma anche responsabili, nella misura in cui consapevoli delle variabili che ne hanno ammesso l’esistenza. Morin sottolinea a più riprese la necessità di un insegnamento educativo il cui obiettivo sia quello di elicitare, nell’interazione tra educatore ed educando, un pensiero prassico, in movimento costante, dialogico, critico e dubitante: un pensiero che sfugga alla cristallizzazione dei contenuti ma che abbracci il costante divenire a cui partecipano il mondo ed i soggetti, in ossequio ad una “vocazione ontologica e storica degli uomini, quella di essere di più” (Freire, 1970, p.40), cuore pulsante e fine ultimo della relazione educativa triadica tra educando/educatore/mondo. “[L]a missione della didattica è di incoraggiare l’autodidattica, destando, suscitando, favorendo l’autonomia dello spirito” (Morin, 2000, p.3) e pertanto l’educazione non può e non deve limitarsi a fornire meccanicamente gli oggetti della conoscenza, secondo quella che Freire chiama una “concezione depositaria dell’educazione” (Freire, 1971, p.57), ma deve offrire i mezzi e gli strumenti per poter ottenere tali conoscenze, per poterle situare, per poterle interrogare criticamente, per poterle organizzare. Morin sostiene che “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” (Morin, 2000, p.15), laddove la seconda è frutto di una dinamica “riempitiva” dell’educazione che mira a travasare, letteralmente, conoscenze e nozioni da colui che le detiene, l’educatore, a colui che, a guisa di una tabula rasa, le immagazzina passivamente e mnesticamente, l’educando. Altresì, una “testa ben fatta” è quella che ha potuto esperire ed esercitare, nel multivariegato iter formativo, un pensiero incessante di crisi, riflessione e azione, trascendendo la mera accumulazione e agglomerazione di saperi. Il pensiero complesso, più una forma di know how che di know that, è ciò che deve essere stimolato nel dialogo tra educatore-educando per far sì che quest’ultimo acquisisca delle attitudini generali a situare ed analizzare i problemi e dei principi organizzatori delle conoscenze, qualità che gli consentono di inserirsi criticamente in una realtà che si struttura su un principio ologrammatico e lo abilitano a trattare problematiche allo stesso tempo globali ed essenziali. Lo sforzo educativo deve concentrare le sue energie nell’atto di co-costruire processi duttili e flessibili, unica valida risorse in un mondo in costante mutamento e divenire. Il sistema educativo universitario che così rigidamente impostato promuove una “testa ben piena” piuttosto che una “ben fatta”, è sostanzialmente violento e oppressivo (Freire, 1971). Esso sollecita, infatti, atti educativi vuoti, poveri, inconcludenti, nella misura in cui il loro unico obiettivo è indottrinare passivamente gli studenti. Ed è in questa luce che si connota come violento e oppressivo, poiché impedisce una situazione educativa dialogica che, invece, non tratterebbe l’educando e l’educatore come due poli opposti e inconciliabili di un processo incolore, ma li farebbe attori palpitanti di “una situazione gnoseologica in cui l’oggetto conoscibile, invece di essere il termine dell’atto di conoscenza di un soggetto, è il mediatore dei soggetti che conoscono: educatore da una parte ed educandi dall’altra. Senza questo superamento non è possibile il rapporto dialogico, indispensabile alla conoscibilità dei soggetti che realizzano l’atto del conoscere, intorno al medesimo oggetto conoscibile” (Freire, 1970, p.68). L’educazione problematizzante è l’antitesi della depositaria nella misura in cui educando ed educatore non assumono ruoli prestabiliti e rigidi ma esercitano in sintonia un pensiero sul mondo esterno, mediatore del loro atto co-conoscitivo. Questo modo di fare educazione innesca un circuito ricorsivo e circolare nel quale l’allievo esercita un taglio critico sulle conoscenze ed esperienze con le quali entra in contatto. Ma la riflessione è nulla senza l’azione come ci ricorda Freire, cogliendo «nella parola due dimensioni: azione e riflessione, talmente solidali, strette da un’interazione così radicale che, sacrificandosi anche parzialmente una delle due, immediatamente l’altra ne risente. Non esiste parola autentica che non sia prassi. Quindi, pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo» (ib., p.77). Che cosa significa un’educazione che faccia leva sul dialogo? Educatore ed educando rappresentano un complesso sistema non prefabbricato ma dal quale deve emergere una proprietà nuova, che è la coscienza critica o il pensiero complesso, la quale aiuti i partecipanti alla diade a riorganizzare le nuove conoscenze acquisite, caricandole di un valore allo stesso tempo soggettivo e oggettivo, emotivo e razionale, globale e locale. Queste sono le premesse epistemologiche dalle quali far partire lavori educativi “che devono essere organizzati con gli oppressi, nel processo della loro coscientizzazione” (Freire, 1970, p.40), tesi alla costruzione di un pensiero pluridimensionale, transdisciplinare, interdisciplinare, polidisciplinare e complesso che sia in grado di organizzare una conoscenza sempre più incerta e di incidere attivamente sulla realtà, trasformando, superando e ribaltando sistemi educativi oppressivi. Il fine di ogni educazione deve essere la creazione di uno spazio potenziale delle facoltà e possibilità umane, scavalcando limiti e vincoli del presente, ove esercitare il proprio diritto ad una conoscenza auto ed etero costruita. Il punto dolente della cultura moderna risiederebbe nella sua incapacità di trasformarsi da “pura” in “attiva”, performativa, di alimentare la vita delle persone di ciò che necessitano. Sostiene Zambrano “per attive intendiamo quelle forme della conoscenza che nascono dal desiderio di penetrare nel cuore umano, quelle che si fanno carico di diffondere le idee fondamentali per utilizzarle come ispiratrici nella vita quotidiana dell’uomo. […] Forme creatrici che non scoprono, né indagano, bensì trasformano” (Zambrano, 1996, pp.55-56). Per raggiungere tali obiettivi, la didattica laboratoriale e il metodo “euristico” si rivelano più idonei: nella didattica laboratoriale e nella ricerca, gli alunni sono stimolati a risolvere i problemi, problem-solving, ma anche a porre le domande e i problemi stessi, problem-posing, attraverso il confronto collaborativo tra compagni. Con tali metodologie didattiche, i discenti imparano a studiare, a organizzare le situazioni problematiche, a collaborare e a riflettere, a prendere l’iniziativa e a dilazionare il tempo dell’azione. Imparano ad apprendere insieme, a sviluppare le proprie inclinazioni e a dare il proprio contributo nel gruppo di apprendimento. Il soggetto interpretante, educatore-educando, si forma nel mentre che trasforma il proprio campo euristico e, con esso, il mondo. La ricerca educativa presuppone, dunque, con uno sguardo qualitativo la consapevolezza della pregnanza simbolica di documenti e testimonianze, la concezione dell’esperienza come contestuale e storica. L’università dovrebbe educare a vivere, laddove l’educazione è, in primo luogo, educazione alla vita, educazione allo sviluppo integrale della persona, in virtù di un nuovo umanesimo educativo incentrato sui valori della salute, del benessere, dell’integrità, della partecipazione e della consapevolezza. Il sistema universitario potrebbe diventare “un centro di creazione del vivente, non l’anticamera di una società parassitaria e mercantile” (Vaneigem, 1996, p.39), dove non si sottrae vita, intelligenza, ma l’educazione si rivolge alla persona nella sua totalità.
2. Pratiche educative all’interno di contesti universitari
A questo fine che si collocano gli interventi di pratiche educative realizzati all’interno delle attività del Laboratorio di Epistemologia e Pratiche dell’Educazione, rivolte agli studenti dei Corsi di Pedagogia Sociale e di Pedagogia dei processi di Apprendimento degli Anni Accademici 2013-2013 e 2013-2014, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli “Federico II”. Dal momento che solo un professionista riflessivo può formare un professionista riflessivo (Schön, 2006), la formazione universitaria dovrebbe avere come obiettivo prioritario quello di favorire lo sviluppo di professionisti riflessivi, che siano in grado di costruire conoscenze in situazione. Alla base di questa costruzione, vi è l’inscindibile nesso tra conoscenza formale, non formale e informale dal cui intreccio emerge la rappresentazione della situazione in cui tale conoscenza si va a costruire, ed emerge così la necessità di costruire strategie di formazione che consentano di esperire l’interconnessione tra le tre dimensioni citate, come momento preliminare alla costruzione di competenze strategiche di natura complessa di tipo riflessivo, proattivo, epistemologico Ecco che il sistema universitario, pedagogicamente orientato, attento alla formazione in termini di implementazione di strategie piuttosto che di contenuti, non può non porsi un duplice problema relativo al modo in cui si possano apprendere strategie attraverso l’esperienza in un contesto di formazione universitaria. È a partire da queste premesse che negli ultimi anni all’interno del Laboratorio di epistemologia e pratiche dell’educazione stiamo sperimentando, anche attraverso la collaborazione con altre Università (Rio de Janeiro e Città del Messico) diverse modalità di didattica attiva, dal laboratorio multimediale di epistemologia e pratiche dell’educazione, al Teatro Forum, all’Autobiografia musicale. Nel contesto del primo laboratorio, lo studio in chiave sincronico-comparativa (e non solo storico-comparativa) dei modelli contemporanei di formazione apre la possibilità di una scelta consapevole non solo di un modello di riferimento, ma anche degli strumenti operativi più adeguati, consentendo una più attenta revisione degli stessi attraverso l’attivazione di dispositivi di autoriflessione. Questo approccio metodologico consente ai formatori di divenire attivi costruttori dei presupposti teorici a partire dai quali interpretare la propria esperienza formativa, piuttosto che fornire un quadro interpretativo esterno che limiterebbe la possibilità di scelte critiche (Strollo, 2013). L’approccio comparativo è diviso in due momenti: il primo ruota attorno all’analisi dei principali modelli di formazione in chiave pedagogica, mettendone in luce le radici storiche e collocandoli poi nel contesto contemporaneo; il secondo, di tipo laboratoriale è finalizzato alla scelta esplicita di un modello ed alla ricostruzione del percorso culturale ed esperienziale – formale, non formale ed informale – da cui è emersa la scelta, intesa ad ogni modo come scelta provvisoria ed aperta a nuove revisioni sulla base delle future esperienze. Nella prima fase, attraverso un ciclo di lezioni frontali, vengono analizzati i principali modelli di interpretazione del processo formativo presenti in letteratura, dei quali si mettono in evidenza le caratteristiche contrastanti ed i nuclei problematici comuni. Per quanto in letteratura siano presenti una pluralità di modelli, nel corso delle lezioni essi vengono analizzati a partire dal ruolo assunto dal formatore e dal soggetto in formazione all’interno della relazione educativa. Questa scelta rende possibile una maggiore schematizzazione dei modelli, i quali vengono distinti in: modelli dell’autonomia, modelli dell’eteronomia, modelli della coevoluzione. Vengono, inoltre, illustrati, nel corso delle lezioni frontali, i principali modelli individuabili a partire dalle “pedagogie implicite” che sono alla base delle azioni comunicative intraprese a livello “ingenuo” dagli individui. La terza fase del percorso comparativo prevede un momento laboratoriale nel corso del quale, una volta individuato il modello di riferimento a seguito della comparazione, lo studente ricostruisce il percorso culturale a partire dal quale ha operato la scelta, tenendo conto del fatto che essa è stata orientata oltre che dalla sua storia di vita quotidiana (primo livello), anche dalla selezione degli input culturali ricevuti nel corso della formazione formale (secondo livello). Si viene configurando così un modello reticolare all’interno del quale è possibile individuare nodi che si riferiscono alla formazione informale, alla formazione non formale, ma anche a quella formale (Strollo, 2008). Il percorso di ricostruzione, tutt’altro che lineare farà dunque riferimento non solo agli eventi della vita quotidiana, ma anche, e soprattutto, a quei testi incontrati nel corso degli studi che sembrano offrire suggestioni dal punto di vista operativo coerenti con il modello scelto. La scelta dell’Ipertesto come strumento di costruzione di questo modello reticolare di interpretazione del processo di formazione è connessa al fatto che questo strumento consente di esplicitare i molteplici percorsi attraverso i quali è possibile ricostruire il proprio processo di costruzione di un modello di formazione, avendo al contempo sempre presenti i collegamenti ineludibili tra contributi offerti dai percorsi formali, non formali ed informali. Attraverso lo strumento ipertestuale, ed in particolare attraverso i collegamenti tra le tre sezioni dell’ipertesto, è possibile, infatti, cogliere come alla radice dei processi di modellizzazione dell’azione, non risieda un processo lineare che va dall’informale al formale, ma processi circolari a partire dai quali tra input formale ed input informale si viene a costituire un rapporto di reciproca regolazione. L’ipertesto, dunque, sfuggendo alla logica rigidamente lineare e sequenziale, peculiare del testo narrativo, consente di mettere in risalto la rete di interconnessioni sottesa ai processi di modellizazione. Il Teatro Forum costituisce la seconda tipologia di laboratorio, ispirato al teatro sociale. Ci focalizziamo sulla consolidazione di esperienze costruite e testate empiricamente nel corso degli ultimi dieci anni in una pluralità di percorsi formativi volti ad indagare la possibilità di promuovere negli studenti universitari in formazione un ascolto critico di sé, degli altri e dell’ambiente sociale (Vittoria, Strollo, 2012; Vittoria, Strollo, Romano, Brock, 2014) e sulla possibile implementazione di tale pratiche attraverso la metodologia del Teatro Sociale in un approccio comparato con l’Università di Rio de Janeiro. La pratica teatrale si presenta come finalizzata all’apprendimento trasformativo; attraverso la riflessione e la critica è possibile, difatti, prendere consapevolezza dei presupposti specifici su cui si basa una prospettiva di significato distorta o incompleta, trasformandola attraverso una riorganizzazione del significato. Il processo di esplicitazione/revisione delle modalità di azione inizia con uno schema di significato dubitabile o problematico e procede attraverso l’esplorazione, l’analisi, il ricordo, l’intuizione, l’immaginazione, fino a giungere alla costruzione di una nuova interpretazione che genera un cambiamento riflessivo nello schema originario di significato arricchendolo, integrandolo e trasformandolo (Mezirow, 1991). A partire da questo processo ha origine l’apprendimento emancipativo che consiste nella libertà dalle forze istintive, linguistiche, epistemologiche, istituzionali e ambientali che limitano le nostre opzioni e il controllo sulla nostra vita. Noi raggiungiamo questa emancipazione esaminando criticamente i nostri assunti. Consapevoli di tale contesto interpretativo, epistemologico e pratico-sociale, si sono adottate le metodologie del Teatro dell’Oppresso create dal drammaturgo brasiliano Augusto Boal che non disgiungono la ricerca sociale dall’azione politica di emancipazione dalle oppressioni sociali. Il senso formativo del teatro si fa politico, ma non si limita a pensare la scena, perché concentra la sua lettura anche sulla platea, sulla possibilità che essa intervenga nelle azioni, suggerisca idee, prenda parte. Così facendo radicalizza la partecipazione dello spettatore in scena. Modifica il rapporto spettatore-attore, così come l’educatore Freire aveva fatto con la relazione professore-alunno, praticando una relazione dialogica, aperta, circolare e, per questo, con potenzialità critiche (Vigilante, Vittoria, 2011). La ricerca non è del “lieto fine”, ma della riflessione sulle relazioni di potere e sugli strumenti di dialogo (di cui fa parte anche il conflitto) che possono alterarla. L’autobiografia musicale, infine, in quanto strumento di espressione ed esplicitazione dei propri vissuti emotivi assolve ad una funzione emancipativa consentendo di risalire alle ragioni del proprio agire, interpretarle, correggerle. Da un lato, dunque, la ricostruzione autobiografica implementa la capacità di riflessione critica sul sapere personale, sulla conoscenza disposizionale, sui valori e sui significati costruiti nel corso della propria esperienza, come momento preliminare alla realizzazione di un apprendimento emancipativo e autoriflessivo, un apprendimento che sia esito di una valutazione critica dei vincoli istintivi, linguistici, epistemologici, istituzionali o ambientali che limitano le nostre opzioni e il controllo razionale che possiamo esercitare sulla nostra vita, ma che sono stati dati per scontati o che si considerano al di là del controllo umano. Dall’altro lato, l’esercizio della scrittura implica una differenza strutturale nel pensiero e potenziando la bi-locazione cognitiva, esito di una disgiunzione dei vissuti dal soggetto che li ha sperimentati, consente di gestire e controllare aspetti o eventi della propria storia ri-connotandoli, istituendo nuovi nessi tra presente, passato e futuro, in un lavoro di rielaborazione che è anche rielaborazione cognitiva dell’evento narrato. Ebbene, nelle attività rivolte agli studenti frequentanti il LEPE, è consueto costruire percorsi che rendano consapevoli i futuri educatori delle potenzialità dei dispositivi autobiografici. Si è ritenuto di utilizzare l’autobiografia musicale nella formazione dei formatori in quanto strumento privilegiato per: -sperimentare l’esperienza della scrittura autobiografica in quanto dispositivo di retrospezione, autoriflessione ed autoformazione. -coglierne attraverso l’esperienza gli elementi di autocensura e autocontrollo. -sperimentare il ruolo della musica sui processi cognitivi ed in particolare l’associazione musica/emozioni/esperienze (Strollo, 2013). L’ascolto della musica potrebbe costituire un cue (indizio) per l’emergere del ricordo involontario o spontaneo e svincolato dalla selezione razionale operata dal soggetto nello scegliere cosa far rientrare nella propria autobiografia, consentendo, per un verso, di riflettere a posteriori su alcune dinamiche proprie della narrazione autobiografica, per l’altro di esperire l’intimo nesso suono/corpo/storia personale (Strollo, 2011). Una delle caratteristiche della scrittura autobiografica tradizionalmente intesa è quella di essere selettiva nel recupero dei ricordi i quali sono filtrati e ricostruiti soggettivamente. Ciò avviene soprattutto quando l’autobiografia non è intesa come atto privato ma come stimolo per parlare di sé ad uno o più lettori, generando il prevalere di atteggiamenti di autocensura ed autocontrollo in vista di un fruitore. A questa selezione volontaria del ricordo si associa una “selezione naturale” connessa all’essere biologicamente programmati per non mantenere in memoria la totalità dell’esperienza. Una delle peculiarità dell’autobiografia scritta ascoltando musica può consistere nel consentire che i ricordi emergano senza essere ricercati intenzionalmente: L’ascolto della musica facilita non solo l’emergere di ricordi lontani ma anche la loro stesura in forma scritta. La differenza sostanziale tra un’autobiografia classica ed una autobiografia musicale è che l’ascolto della musica favorisce una spontaneità che suscita emozione a tal punto che il livello di autocensura della scrittura autobiografica tende ad abbassarsi (Strollo, 2011) Il percorso proposto agli studenti ha consentito ai partecipanti di conoscere attraverso l’esperienza alcune potenzialità ed alcuni vincoli peculiari della scrittura autobiografica in quanto dispositivo di retrospezione, autoriflessione ed autoformazione, di coglierne gli elementi di autocensura e autocontrollo, di sperimentare il ruolo della musica sui processi cognitivi ed in particolare l’associazione musica/emozioni/esperienze (Strollo, 2011). Attraverso, dunque, tali partiche educative, si può pensare di promuovere il recupero della motivazione umana come una spinta al dinamismo ed all’attività esplorativa, cioè alla ricerca di nuove prospettive, e, nell’ambito scolastico e universitario della formazione, lo studente motivato persegue con costanza i propri propositi cognitivi, spinto da curiosità, interesse e bisogno di affermazione. In questo modo, è in grado di prevedere un periodo di impegno faticoso, di programmare un risultato e di mettere in atto strategie di problem-solving: è in grado, quindi, di rendersi attivo costruttore della sua conoscenza.
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