Se il linguaggio ci caratterizza come umani, esso si concretizza solo nella particolarità di una lingua storicamente determinata. Nelle lingue e nel loro reciproco riconoscersi e tradursi vive quell’umanità una e plurale che ci appartiene da sempre, ma che il nostro mondo globalizzato rende straordinariamente evidente, densa di rischi e di pericoli, ma anche ricca di straordinarie opportunità. Traduciamo nel senso ampio del termine non solo nello scambio delle lingue, ma tutte le volte che parliamo e incontriamo l’altro in noi e fuori di noi. Il libro mira ad elaborare una filosofia della traduzione ponendosi alla scuola della fenomenologia ermeneutica di Ricoeur. Una prima parte è dedicata ad un’ampia rassegna storica. Per i Romani la traduzione aveva maggiore importanza che per i Greci, proprio perché erano consapevoli del gap esistente fra le due culture e quindi della necessità di riappropriarsi dell’eredità greca. In generale, il problema della traduzione riemerge in tutta la sua valenza tutte le volte che si impone il confronto con l’altro nei momenti di rottura storica e di costruzione di un nuovo inizio: i Romani coi Greci, i Cristiani col mondo antico, la Riforma con la necessità di un ritorno alle radici cristiane, la cultura germanica nel rapporto con le culture europee più mature nell’epoca del primo Romanticismo. Il problema della traduzione inoltre è legato in modo peculiare a quello della modernità, in quanto in essa emerge con forza la necessità di confrontarsi con l’altro extraeuropeo. La rassegna storica si conclude coi contemporanei, in particolare con lo Steiner di After Babel, con lo Jakobson che distingue traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, con Nida con il suo concetto di equivalenza dinamica, con Umberto Eco di “Dire quasi la stessa cosa”. Coi contemporanei viene alla luce l’esigenza di dare un preciso statuto epistemologico a una scienza della traduzione, che viene ora concepita come linguistica applicata, ora come un ramo della letteratura comparata: donde l’oscillazione terminologica tra traductologie - prevalente nell’area francese - e translation studies che prevale nell’area anglosassone. Più che di scienza occorre parlare di un vasto campo interdisciplinare. Particolare attenzione è riservata alle tesi di Ladmiral che distingue una traduzione “source oriented” e una traduzione “target oriented”. Viene infine affrontato il problema della traduzione della lettera che alcuni autori rivendicano, contro un concetto di traduzione disincarnato, distinguendola dalla traduzione parola per parola o servile (Meschonnic, Berman). La vera e propria filosofia della traduzione si apre con un’esegesi dei miti di Babele e di Pentecoste. A differenza della lettura tradizionale del mito di Babele come condanna o maledizione viene invece valorizzata Babele come riconoscimento delle differenze. Nella traduzione viene riconosciuto lo straniero non già come nemico ma come ospite. L’utopia di Pentecoste poi completa questo quadro di ospitalità linguistica, introducendo il concetto di “dono delle lingue” come fondamento non violento del legame sociale. Dalla nostra filosofia della traduzione ci aspettiamo anche un rinnovamento del metodo fenomenologico, nelle sue tre categorie di significazione (meaning), di soggetto come portatore della significazione e di riduzione come nascita di un essere per la significazione (a being for meaning); tutte e tre le categorie vengono chiarificate dall’esperienza della traduzione, a partire dalla terza che è prima nell’ordine della fondazione. Se si considera che ogni lingua è come un mondo, ridurre, prendere le distanze da una lingua, è ciò che avviene nell’esperienza della traduzione, non già uscire dal mondo ma passare da una lingua all’altra, raggiungere quell’umanità trascendentale che permette la comprensione fra i diversi. Ciò influenza la comprensione del soggetto che non è mai disincarnato, ma vive in un medium linguistico, così come la significazione cessa di essere un mondo di essenze disincarnate, ma diventa lo spazio aperto dalla traduzione per confrontare le varie prospettive sul mondo. Il libro si completa con le appendici: su Gramsci e il suo fecondo concetto di traducibilità dei saperi, in polemica con le opposte tesi di Croce (intraducibilità della poesia) e Gentile (tutto è traduzione); sull’unità dell’opera di Ricoeur e il paradigma della traduzione; sulla legittimità della traduzione del pensiero biblico in un linguaggio che tenga conto della filosofia dell’essere; sul contributo della filosofia analitica al problema della traduzione con Quine e Davidson, per concludersi in un auspicato ritorno alla filosofia del linguaggio ordinario.

Per una filosofia della traduzione / Iervolino, Domenico. - STAMPA. - (2008).

Per una filosofia della traduzione

IERVOLINO, DOMENICO
2008

Abstract

Se il linguaggio ci caratterizza come umani, esso si concretizza solo nella particolarità di una lingua storicamente determinata. Nelle lingue e nel loro reciproco riconoscersi e tradursi vive quell’umanità una e plurale che ci appartiene da sempre, ma che il nostro mondo globalizzato rende straordinariamente evidente, densa di rischi e di pericoli, ma anche ricca di straordinarie opportunità. Traduciamo nel senso ampio del termine non solo nello scambio delle lingue, ma tutte le volte che parliamo e incontriamo l’altro in noi e fuori di noi. Il libro mira ad elaborare una filosofia della traduzione ponendosi alla scuola della fenomenologia ermeneutica di Ricoeur. Una prima parte è dedicata ad un’ampia rassegna storica. Per i Romani la traduzione aveva maggiore importanza che per i Greci, proprio perché erano consapevoli del gap esistente fra le due culture e quindi della necessità di riappropriarsi dell’eredità greca. In generale, il problema della traduzione riemerge in tutta la sua valenza tutte le volte che si impone il confronto con l’altro nei momenti di rottura storica e di costruzione di un nuovo inizio: i Romani coi Greci, i Cristiani col mondo antico, la Riforma con la necessità di un ritorno alle radici cristiane, la cultura germanica nel rapporto con le culture europee più mature nell’epoca del primo Romanticismo. Il problema della traduzione inoltre è legato in modo peculiare a quello della modernità, in quanto in essa emerge con forza la necessità di confrontarsi con l’altro extraeuropeo. La rassegna storica si conclude coi contemporanei, in particolare con lo Steiner di After Babel, con lo Jakobson che distingue traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, con Nida con il suo concetto di equivalenza dinamica, con Umberto Eco di “Dire quasi la stessa cosa”. Coi contemporanei viene alla luce l’esigenza di dare un preciso statuto epistemologico a una scienza della traduzione, che viene ora concepita come linguistica applicata, ora come un ramo della letteratura comparata: donde l’oscillazione terminologica tra traductologie - prevalente nell’area francese - e translation studies che prevale nell’area anglosassone. Più che di scienza occorre parlare di un vasto campo interdisciplinare. Particolare attenzione è riservata alle tesi di Ladmiral che distingue una traduzione “source oriented” e una traduzione “target oriented”. Viene infine affrontato il problema della traduzione della lettera che alcuni autori rivendicano, contro un concetto di traduzione disincarnato, distinguendola dalla traduzione parola per parola o servile (Meschonnic, Berman). La vera e propria filosofia della traduzione si apre con un’esegesi dei miti di Babele e di Pentecoste. A differenza della lettura tradizionale del mito di Babele come condanna o maledizione viene invece valorizzata Babele come riconoscimento delle differenze. Nella traduzione viene riconosciuto lo straniero non già come nemico ma come ospite. L’utopia di Pentecoste poi completa questo quadro di ospitalità linguistica, introducendo il concetto di “dono delle lingue” come fondamento non violento del legame sociale. Dalla nostra filosofia della traduzione ci aspettiamo anche un rinnovamento del metodo fenomenologico, nelle sue tre categorie di significazione (meaning), di soggetto come portatore della significazione e di riduzione come nascita di un essere per la significazione (a being for meaning); tutte e tre le categorie vengono chiarificate dall’esperienza della traduzione, a partire dalla terza che è prima nell’ordine della fondazione. Se si considera che ogni lingua è come un mondo, ridurre, prendere le distanze da una lingua, è ciò che avviene nell’esperienza della traduzione, non già uscire dal mondo ma passare da una lingua all’altra, raggiungere quell’umanità trascendentale che permette la comprensione fra i diversi. Ciò influenza la comprensione del soggetto che non è mai disincarnato, ma vive in un medium linguistico, così come la significazione cessa di essere un mondo di essenze disincarnate, ma diventa lo spazio aperto dalla traduzione per confrontare le varie prospettive sul mondo. Il libro si completa con le appendici: su Gramsci e il suo fecondo concetto di traducibilità dei saperi, in polemica con le opposte tesi di Croce (intraducibilità della poesia) e Gentile (tutto è traduzione); sull’unità dell’opera di Ricoeur e il paradigma della traduzione; sulla legittimità della traduzione del pensiero biblico in un linguaggio che tenga conto della filosofia dell’essere; sul contributo della filosofia analitica al problema della traduzione con Quine e Davidson, per concludersi in un auspicato ritorno alla filosofia del linguaggio ordinario.
2008
9788837222390
Per una filosofia della traduzione / Iervolino, Domenico. - STAMPA. - (2008).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11588/205807
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